Fondato a Racalmuto nel 1980

Quei numeri senza un nome nel piccolo cimitero di Santa Elisabetta

10 anni fa la strage di migranti nel Mediterraneo. Mai sapremo chi lì sia stato sepolto. Si sa solo che vicino alla piccola isola, quella mattina del 3 ottobre, tutti e cinque non giunsero mai dove invece avrebbero voluto.

Cimitero di Santa Elisabetta. Foto di Antonio Fragapane

Un gran polverone offuscava ogni cosa, ogni spostamento, ogni pensiero. Si era alzato improvvisamente, colpa di quel vento minaccioso che dal nulla esplode potente nella sua pericolosità. Il sole era già alto e sembrava velare il cielo, tanto era accecante la sua luce. Gli occhi facevano male, lacrimavano, e la sabbia graffiava anche guance e labbra, era impossibile parlare e perfino muoversi. Poi la luminosità di mezzogiorno fu la miccia che fece detonare con prepotenza i mille incredibili colori di quel luogo. La terra appariva come una distesa di ruggine e le fronde dei banani erano talmente verdi e fitte da sembrare una piccola giungla, la stessa che fino a pochi anni prima in quegli spazi regnava sovrana. Il villaggio era piccolo, appena una ventina di case, tutte molto vicine tra loro, costruite quando ancora madre natura forniva qualcosa ai suoi sudditi e gli uomini con le braccia di metallo che uccidevano non esistevano neanche nei peggiori incubi fatti in quell’angolo d’Africa. Fino a poco tempo prima, lì c’erano pozzi per l’acqua, alberi per la legna e stradine per poter andare nei vicini abitati che, più grandi, permettevano di poter barattare giusto il minimo necessario per vivere. Quanti ricordi. Giornate intere trascorse a raccogliere i frutti dai pochi orti creati tra quelle piccole capanne, fabbricate con tanta fatica e che rappresentavano un guscio di salvezza contro le paure di ciò che si cominciava a sentire. Ma ormai sono solo tracce di un tempo passato che non ritornerà mai più. Adesso la polvere ottenebra quello che rimane dei pozzi, tutti secchi e in molti casi ricolmi di qualunque cosa. Dove c’erano quei piccoli campi ora solo aride zolle, che gli abitanti non dimenticano essere state bagnate col rosso del loro sangue. E non ci sono più neanche quelle case, piccoli e preziosi scrigni di vita vissuta violati per sempre da una barbarie senza fine. Tetti bruciati, muri abbattuti e ovunque il caos, sotto cui spesso si cela al mondo quello spaventoso orrore. Un cumulo di rovine uguale ad altri mille e poi ad altri mille ancora, nei luoghi dove per la prima volta è apparso l’uomo ma da dove lo stesso uomo sembra adesso voler fuggire. A tutti costi.

Antonio Fragapane

La sabbia era ardente e di una abbagliante immensità. Quel deserto sembrava un oceano scostante, con onde altissime prima e, in un attimo, assolutamente piatto poi. Una distesa infinita che all’orizzonte, per quel poco che si riusciva a mettere a fuoco a occhio nudo, sembrava tuffarsi nello scintillio del cielo. Tutt’intorno il nulla. Niente piante, niente animali, niente esseri umani se non loro, su quel camion vecchio di almeno trent’anni, sporco e rumoroso come solo certi ruderi meccanici aggiustati cento volte sanno essere. In quaranta stavano appesi al cassone, ricolmo delle loro cose e di chissà cos’altro quegli autisti mercenari stavano trasportando da una sponda all’altra del Sahara. Avevano i capelli colonizzati dai granelli di uno dei deserti più grandi e rischiosi al mondo. I vestiti erano diventati una seconda pelle, tanto aderivano a causa dell’incessante scirocco. E nei loro occhi color ebano si specchiavano tutte quelle immagini di meravigliosa natura sullo sfondo della viscerale paura degli sguardi. Ammassati in quel modo, non erano che solo all’inizio di un viaggio che nelle loro più fiduciose speranze li avrebbe liberati da povertà, guerre e genocidi, ma che nelle peggiori angosce li avrebbe potuti anche accompagnare dritti alla morte. La stessa che in molti avevano quasi avuto occasione di conoscere quando, per pagarsi la costosa traversata, hanno intravisto come unica possibilità di salvezza vendersi tutto ciò che possedevano. E, se necessario, anche un rene, sottoponendosi a rischiosissime operazioni organizzate alla meglio in fatiscenti tuguri sperduti nella savana. Viaggiarono per giorni, caldissimi e interminabili, intervallati solo dalle fredde notti che a quelle latitudini non ti aspetti essere così violente nel trapassare i vestiti e la carne e nel farti tremare fino a implorare il tuo Dio per un solo raggio di sole. Il cibo era scarso, ancora più scarsa l’acqua, non più potabile ma bevuta lo stesso. Sotto un sole che dilatava anche le arrugginite lamiere del camion, ci si fermava solo quando si incontravano altri mezzi che, solitari e scuri, solcavano pericolosamente dune vertiginose o sfrecciavano su sconfinati prati di pietre luccicanti. Ma le fermate non presagivano mai nulla di buono. Sono in tanti quelli che non ce la fanno e, a motori spenti, ci si sbarazza velocemente dei loro cadaveri, abbandonati dove non verranno mai cercati né trovati. Intere esistenze terminate ai confini di una terra di nessuno. E quelli rimasti vivi sono spesso minacciati e rapinati. In quei posti lontani da tutto, da ogni civiltà e da ogni frammento di umanità, neanche il denaro può essere un’arma per la sopravvivenza. Lì donne e uomini vengono anche stuprati e venduti, inghiottiti da bramose fauci, porte di un orrore inimmaginabile.

Tutto quel blu li ubriacava, molti di loro infatti non avevano mai visto niente del genere. Una sensazione di spaesamento mista all’eccitazione d’avercela fatta. Le sabbie che ingoiano ogni cosa erano alle loro spalle. Adesso guardavano rivolti al futuro, oltre quell’acqua così calma e limpida, dove altri popoli li avrebbero accolti e sottratti a tutto ciò da cui fuggivano. Ma molto presto si accorsero che non era esattamente così come immaginavano, anzi. Attesero mesi prima di potersi imbarcare, tra mille difficoltà e ostacoli. Non era mai il loro turno, dovevano aspettare la migliore stagione per salpare, i soldi erano pochi e non bastavano per un posto in barca. Mille scuse, snervanti e meschine. Tutti quelli che lì erano arrivati venivano suddivisi in gruppi, cui comunicare il momento della partenza solo poche ore prima. E poteva anche capitare loro d’essere forzatamente rinchiusi in veri e propri campi di prigionia, dove la sorte cambiava a ogni singolo minuto della giornata. Cupe e strette le stradine, fatiscenti le case, spettrali e maleodoranti i vicoli. Tra compagni di viaggio si cercava di stare tutti insieme il più a lungo possibile. In quei momenti conoscersi anche solo col nome poteva essere vitale e la paura di rimanere bloccati in quel luogo straniero cominciava a farsi sempre più strada nei loro pensieri più nascosti. Divenne poi terrore quando capirono che tutto ciò da cui erano fuggiti li stava rapidamente raggiungendo anche sulle rive di quel mare che tanto all’inizio li aveva rasserenati. Odio cieco, fratelli che uccidevano altri fratelli. Ma poi una prima barca partì, e dopo tante, tantissime altre.

L’imbarcazione era un vecchio peschereccio, lurido e assordante. Il tanfo di gasolio che disperdeva nell’aria era uguale a quello che usciva dalla vecchia marmitta del camion del deserto. E come su quel camion, anche qui si era in balìa del nulla. Ma stavolta erano in cinquecento e nel bel mezzo di un mare che all’alba e al tramonto sembrava una distesa di piombo fuso, pronto a inghiottirli a ogni loro minimo movimento. Caldo, sete, fame e sozzura ovunque anche lì, a pochi centimetri da un’acqua di cui però non potevano fare alcun uso. Molti erano stati spinti giù nelle tenebrose stive, dove il sole non batteva ma il caldo e l’irrespirabilità dell’aria rendevano tutto un incubo. Per chi invece si trovava all’aperto c’era la brezza marina a rendere quella condizione un po’ più sopportabile. O almeno all’inizio così sembrava, perché poi l’aria cominciava a fischiare incessantemente nelle orecchie, sempre più stordite, e faceva lacrimare tutti quei mille occhi, tanto era aspra. E le lacrime riportavano i ricordi ai loro villaggi, impolverati e abbandonati spesso troppo velocemente. Il fruscio delle onde dettava il tempo in quelle lunghe giornate, passate tra acque che più erano rumorose e più preoccupavano. Di tutto avevano infatti bisogno tranne che d’imbattersi nel mare grosso e affrontarlo con un rottame di legno con a bordo cinquecento persone stremate e spaventate da ogni singola goccia salata che le sfiorava. Viaggiarono così per quasi tre giorni, l’uno attaccato all’altra, senza gabinetti e senza potersi muovere, troppo alto il rischio di capovolgersi. Quella traversata, come tutte le altre, non doveva avere assolutamente nulla che la ostacolasse. A volte capitava pure che le donne incinte partorissero e chi non riusciva a farcela era buttato in fondo a quegli abissi senza il benché minimo batter di ciglia. Niente e nessuno doveva intromettersi tra quel barcone e la sua ambita meta, punto d’arrivo che, quando va bene, permette a quell’umanità disorientata di entrare dalla porta principale dell’accoglienza italiana. Ma se va male, in un niente si eclissa tutto.

Lampedusa Isola dei Conigli. Foto di Antonio Fragapane

E finalmente all’improvviso eccole, le luci della terra ferma. Erano i bagliori di Lampedusa, una piccola isola che sembra calata quasi dall’alto in mezzo a una distesa marina per permettere a tutti gli erranti di poter continuare a sperare di potercela fare. Ma tutto cambiò nella frazione di un attimo. Il buio che da ore circondava la barca scomparve, lasciando spazio a una grande, immensa fiamma. Il fuoco ormai avvolgeva tutto. L’oscurità dell’acqua in quei momenti fu l’unico luogo di salvezza per chi, nuotando, seppe giungervi. Ma il mare per molti di quegli uomini, donne e bambini era stata una indescrivibile e sconosciuta meraviglia dove si ritrovarono a non poter far più nulla.

Nel piccolo cimitero di Santa Elisabetta l’aria è fresca, anche se il sole sta per illuminare gli ultimi spazi ancora all’ombra. Qualche volta mi capita di venirci. Qui riposano affetti familiari e, purtroppo, molte giovani persone che conoscevo. Esco da una cappella privata e mi ritrovo di fronte a cinque tombe, che a differenza di quasi tutte le altre sono sulla nuda terra. Cinque steli verticali lignee e candide. Solo su una di esse è possibile vedere un volto in una foto e collegarlo a un nome, a un cognome e a un numero. Rahwa Ghebru, numero 150. Aveva ventisei anni ed era eritrea. Sulle altre quattro invece hanno potuto fissare appena due foto, quella del numero 152, un giovane sorridente in giacca e cravatta e ignaro di tutto, e quella del numero 146, una donna al contrario cupa in volto. Niente nomi. Quattro colonne anonime e mai sapremo chi lì sia stato sepolto. Si sa solo che vicino alla piccola isola, quella mattina del 3 ottobre, tutti e cinque non giunsero mai dove invece avrebbero voluto.

 

 

 

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