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La “dolce” Sicilia dello zucchero

Dagli arabi fino al Settecento nell’isola si coltivava la canna da zucchero. Piantagioni soprattutto nel palermitano. Una vera e propria industria. Poi il declino. Come per tante altre cose…

Non solo sale in Sicilia. Ma anche tanto tanto zucchero. I veneziani lo chiamavano “sale arabo” proprio perché grazie agli arabi si deve la coltivazione della canna da zucchero che rigogliosa cresceva nell’isola, soprattutto nell’area del palermitano. Del resto la grande tradizione dolciaria, dal cannolo alla cassata ai famosi “pupi di zucchero” magnificati nei giorni dedicati ai morti, ha radici dal popolo arabo che molto influenzò – tra le tante altre cose – i piatti della tradizione siciliana, felicemente arrivati ai nostri giorni. E lo zucchero non poteva mancare, e non mancava infatti. La coltivazione in Sicilia della canna da zucchero trovava terreno fertile per tante ragioni: acqua in abbondanza, almeno in quegli anni, e temperature ideali necessarie per far crescere la cannamela.

Tanto zucchero, dunque. Dagli arabi fino al Quattrocento, quando ci fu un calo della produzione siciliana. Che riprese circa un secolo dopo, a cominciare dalla metà del Cinquecento. Da tutta Europa, infatti, tornarono le richieste dello zucchero dell’Isola, che era, secondo gli storici, “raffinatissimo”. Nei primi anni del Seicento – come riporta il delizioso volumetto “Storia dello zucchero siciliano” di Carmelo Trasselli, pubblicato una quarantina di anni fa dalla casa editrice Sciascia di Caltanissetta – la Sicilia esportò “fuori regno” una media annua di 850 quintali di zucchero. Una vera e propria industria.

Le piantagioni si estendevano, quindi, nelle campagne di Monreale e Palermo, Trapani, Partinico, Acquedolci, Trabia, Capo d’Orlando. E poi anche più a sud, fino ad Agrigento. E non sempre i cosiddetti “trappeti di canna da zucchero” erano gestiti da siciliani. Spesso erano in mano a operatori genovesi o comunque del nord Italia.

Una produzione che, a pensarci bene, rendeva la Sicilia quella che è sempre stata ed è. Una terra ricca che potrebbe dare tutto e che, tuttavia, non ha saputo “gestire” questa ricchezza. Le ragioni, certamente, vanno cercate nella storia della Sicilia, nelle tante dominazioni e contaminazioni.

Di certo sappiamo che non sempre i siciliani hanno saputo governare il benessere collettivo. E spesso, come è accaduto anche negli ultimi cinquant’anni, pochi hanno effettivamente valorizzato acqua sole e bellezze trasformandoli in prosperità e fiducia nel futuro. Questo è successo anche con lo zucchero. Fino alla fine del Seicento, quando la produzione inizia a calare.

Lo zucchero siciliano morì ucciso da quello americano. Da oltre oceano arrivava bello e pronto con costi inferiori rispetto alla Sicilia. Un po’ come per lo zolfo. Un po’ come avvenne per la gloriosa impresa siciliana della seta. Costava di più estrarlo che venderlo. Le carte antiche e i documenti commerciali testimoniano il definitivo tracollo dello zuccherificio nel Settecento, con ultime coltivazioni ad Avola.

Chissà come sarebbe stata la Sicilia dell’aspro sale e zolfo, questa terra di luce e lutto, se la produzione dello zucchero non si fosse fermata? Come l’avrebbero raccontata gli scrittori?

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