Fondato a Racalmuto nel 1980

“Oggi la Sicilia è sempre meno Sicilia”

Nino De Vita racconta a Salvatore Picone i cinquant’anni di attività poetica e letteraria. Il suo rapporto con i grandi letterati siciliani del ‘900 – da Sciascia a Consolo a Bufalino – e il suo rapporto con l’isola. De Vita il 3 dicembre riceverà a Grotte il Premio “Racalmare – Leonardo Sciascia” alla carriera

Nino De Vita fotografato da Ferdinando Scianna

Ogni sera Nino De Vita raccontava alla figlia, prima di andare a letto, storie della campagna marsalese dove è nato nel 1950 e dove ha sempre vissuto, Cutusìu. Esaurite le storielle iniziò a inventare favole «che un giorno decisi di scrivere e raccogliere prima che si disperdessero» ricorda il poeta siciliano intanato in una delle centonove contrade di Marsala, la città che adesso lo celebra per i suoi cinquant’anni di poesia.

Rimasto sempre appartato in questo luogo profondo che è Cutusìu, dove l’aria sprigiona il sapore del sale dello Stagnone, da qui ha liberato, con la poesia narrativa, i suoni delle parole antiche ricreando un mondo che non esiste più. Davanti ai suoi occhi il mare di Mozia e le gobbe delle isole Egadi: «Sono cresciuto in campagna – racconta – a casa si parlava il dialetto puro. Solo dopo, per esempio, ho saputo che la bbucetta era la forchetta, che la bbunaca in città la chiamavano giacca».

E così si è interessato alla ricerca delle radici linguistiche

«No, non ci pensavo affatto. In quei primi anni Ottanta lavoravo al mio primo libro di poesie in lingua Italiana, Fosse Chiti. Ad un certo punto arrivò la conversione».

Come andò?

«Insegnavo in un liceo di Trapani e una mattina in classe, chiedendo di uscire, uno studente dimenticò di chiudere la porta. Non lasciarla a ciaccazzedda, gli dissi. E un altro ragazzo dai banchi, sorpreso, affermò che gli era sembrata una parlata araba. Quei ragazzi non mi capivano. C’era in corso una rivoluzione linguistica. Tutto stava iniziando a cambiare. Nessuno tra loro sapeva il significato della parola minzudda, che dalle mie parti significa gemelli».

Nacque così il suo primo libro in dialetto, “Cutusìo”?

«Scrivevo molto e raccontavo solo in dialetto. Tanti anni a rammentare il vocabolario della mia infanzia. Ho narrato così i miei primi tredici anni di vita adoperando quelle parole consumate o del tutto sconosciute. Il libro, però, arriverà solo nel 1994».

Un modo per salvare una lingua che sta morire…

«Che è già morta. A volte trovo qualche giovane che legge le poesie in dialetto. Molti mi dicono addirittura che vorrebbero scrivere. E come fanno se non la comprendono? Si può narrare con una lingua che non si conosce? Per scrivere in dialetto non si può far uso del dizionario. Le parole li devi sentire dentro perché ti arrivano da lontano, dalle radici».

Dunque, non ci saranno più poeti dialettali secondo lei?

«Come diceva Sciascia, facendo due più due, penso che i poeti dialettali siano ormai in estinzione. Io, e quelli della mia generazione, ancora possiamo chiamare le calze pilunetta, perché so cosa sono. Del dialetto sono rimasti gruppetti di parole, ma tante se ne sono andate da un pezzo. Ma ci sarà ancora bisogno di poeti, in qualunque lingua scrivano».

A proposito di Sciascia, lo ha frequentato per molti anni…

«È stato un caro amico, nonostante la differenza di età. L’ho conosciuto nel 1969. Mi ero trasferito a Palermo per gli studi universitari. Leggevo molto, frequentavo librerie e gallerie. Un giorno incontrai Enzo Sellerio che esponeva sue fotografie. Avevo 19 anni. Mi invitò in via Siracusa. Mi presentò un uomo che si muoveva lentamente e fumava. Era Leonardo Sciascia».

De Vita con Leonardo Sciascia (Foto Giuseppe Leone)

Un’amicizia durata vent’anni

«Una grande amicizia, davvero. Lui veniva da me a Cutusìo. Io lo seguivo, andavo a trovarlo a Palermo e a Racalmuto. Ero giovane e spesso lo accompagnavo con la mia macchina. Lui quasi sempre in silenzio».

Lo scrittore non riuscì a leggere i suoi versi in dialetto

«No. Scrivevo di Cutusìo, ma ho iniziato a pubblicare dopo la sua morte. Al contrario di Consolo e Bufalino che invece hanno seguito affettuosamente il mio lavoro».

Cosa le manca di questi grandi siciliani?

«La possibilità di stare con loro, di conversare. Con Vincenzo Consolo ci vedevamo spesso. È stato molto generoso con me e con i miei versi».

E con Gesualdo Bufalino?

«Ci  vedevamo di meno. Una volta mi è accaduto di avere in macchina Sciascia, seduto accanto a me che guidavo, Consolo e Bufalino. Ho assistito a queste conversazioni colte in mezzo al traffico di Palermo. E poi ricordo Ignazio Buttitta che mi ospitava spesso ad Aspra, Antonio Castelli, Angelo Fiore, Giuseppe Bonaviri. Non solo scrittori, tanti pittori e fotografi».

Un pezzo di Sicilia che non c’è più

«Oggi la Sicilia è sempre meno Sicilia. Prima era più integrale. Fino a trent’anni fa era più riconoscibile in tutto, nel mangiare, nella moda, nella letteratura. Oggi non c’è differenza tra un giovane di Marsala o di Monza. Anche gli scrittori e le scrittrici stanno perdendo questa isolanità. Per me è diverso. Io conservo la Sicilia perché coltivo il mio dialetto annaffiandolo ogni giorno con l’acqua della memoria. Come ho fatto con i racconti raccolti in “Cùntura”, ripubblicato in questi giorni, dopo vent’anni, dalla casa editrice Le Lettere. Quelle storie che piacevano tanto ai miei figli e che ora leggerò alla mia piccola nipotina Beatrice».

da “la Repubblica” del 31 ottobre 2023

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