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Anche Santa Rosalia vittima dell’emigrazione?

Ovviamente no, anzi. Leggete questa storia. Tutto ha avuto inizio nella metà del ‘500

Livo. foto di Giacomo Ganzetti

Si sa, le scoperte più sorprendenti sono quelle inattese, quasi involontarie. Ma esistono, eccome. Una di queste ci porta a scovare il culto di una delle sante più famose in un luogo che decisamente non ti aspetti. La santa è Rosalia Sinibaldi e il luogo è l’Alto Lario Occidentale, ovvero un territorio a un passo dal confine svizzero, che lambisce la parte settentrionale del Lago di Como (e all’inizio anche oltre, più a nord, fino a Chiavenna, in piena Valtellina). Ma come è possibile? Si potrebbe istintivamente dire. La Santuzza palermitana è stata anche lei vittima dell’emigrazione? Ovviamente no, anzi.

Tutto ha avuto inizio nella metà del ‘500, quando la situazione dell’Italia di allora, se paragonata a quella attuale, era economicamente capovolta. E fu così che molti uomini (il fenomeno fu, infatti, esclusivamente maschile) della fascia montana delle “Tre Pievi” – piccoli paesi che gravitavano attorno ai più grandi Gravedona, Dongo e Sorico – iniziarono una emigrazione da luoghi del nord molto poveri alle regioni del sud, Sicilia in particolare, molto più ricche. Il fenomeno s’intensificò nel ‘600, quando sia il Ducato di Milano che la Sicilia erano entrambi governati dagli spagnoli. E i lariani videro in questa discesa al sud un’occasione reale per poter lavorare e mantenere le rispettive famiglie. Venne scelta Palermo perchè allora era una città, dall’illustre passato imperiale, in forte ascesa sia economica che politica. Inoltre, era iniziata nell’isola una vera e propria colonizzazione dell’entroterra, con l’acquisto di enormi latifondi che i ricchi palermitani volevano assolutamente sfruttare. Chiaro, quindi, come la richiesta di manodopera sia stata fortissima, tanto che la sua eco viaggiò lungo tutta la penisola. E a rispondere furono gli uomini di uno dei laghi (in futuro) più conosciuti al mondo. Gli aristocratici panormiti cercavano inoltre artigiani che costruissero le loro ville e i loro giardini e li abbellissero rendendoli dei veri gioielli. Ecco quindi che carpentieri, scalpellini, ma anche orafi, tessitori e commercianti furono tutti benvenuti in quella che allora era una delle città europee più ricche. La Palermo di quegli anni, solo a immaginare le meraviglie edificate, sarà stata davvero bellissima, una goduria per gli occhi dei visitatori e dei suoi tanti abitanti. Ma questa, ahimè, è tutt’altra storia.

Santa Rosalia. Eremo della Quisquina. Foto di Giuseppe Adamo

Così iniziò l’avventura isolana degli emigrati lariani che, lavorando sodo e bene, si fecero apprezzare e iniziarono a poter risparmiare. E il frutto di tali raccolte – come in ogni classica emigrazione che si rispetti – iniziò a essere spedito alle famiglie rimaste nei paesi d’origine. Ma non solo. L’occasione d’essersi trovati bene e l’opportunità di aver potuto lavorare e guadagnare, li rese ancora più devoti, tanto che una parte dei risparmi inviati cominciò progressivamente a essere destinata per costruire o adornare le chiese di quegli stessi paesi. Ed ecco qui concretizzarsi il punto d’intersezione storico di cui si è accennato all’inizio. La metà del ‘600 fu anche il periodo in cui buona parte della Lombardia iniziò a essere flagellata dalla peste (la stessa descritta dal Manzoni ne I promessi sposi), quindi quale migliore santa – il cui maestoso Eremo si trova a Santo Stefano Quisquina, in provincia di Agrigento – cui appellarsi per chiedere la protezione contro il pericolosissimo morbo, se non la stessa che pochi anni prima aveva salvato Palermo in modo miracoloso? Nel capoluogo siciliano, infatti, all’inizio del ‘600 attraccò un vascello infettato dalla peste e il contagio dell’intera città avvenne in meno di un mese. Inutili furono le processioni organizzate in onore delle quattro sante protettrici (Cristina, Ninfa, Oliva e Agata), il morbo non spariva. Migliaia i morti, ovunque. Ma Rosalia apparì in sogno indicando dove poter trovare i resti del suo corpo e chiedendo che fossero portati in corteo in tutte le strade, affinché la città potesse essere liberata e salvata. E il miracolo avvenne, divenendone poi anche la sola e unica Patrona.

Santa Rosalia, opera del pittore monrealese Pietro Novelli. Foto di Giuseppe Adam0

Ecco, allora, spiegata la folta presenza di reliquari e reliquie, cappelle, quadri, affreschi e statue, tutti dedicati a Santa Rosalia e presenti nelle chiese dei lontanissimi paesi lariani di Livo, Germasino, Caino, Trezzone, Peglio, Brenzio, Vercana, Montemezzo, Dosso del Liro, solo per citarne alcuni. A tal proposito, merita d’essere menzionata una grande tela a olio, conservata nella chiesa “nuova” di San Giacomo a Livo, opera del pittore monrealese Pietro Novelli e raffigurante Santa Rosalia che, insieme alla Madonna, intercede con la Santissima Trinità affinchè la città possa essere liberata dalla mortale morsa del morbo. Un particolare desta meraviglia: nella parte bassa del dipinto – proveniente certamente da Palermo – l’autore ha omaggiato il porto, uno scorcio della città e il profilo del Monte Pellegrino. E durante i tre secoli di emigrazione, sulle sponde o a ridosso del Lago di Como, la Santuzza fu anche riverita col battesimo di numerose bambine, tante piccole Rosalie sgambettanti e urlanti ai piedi delle Alpi. In più, oltre al quotidiano uso di monili che presentavano l’acquila bicipite – ovvero il marchio dell’Opera del Duomo di Palermo – anche il tradizionale vestito indossato fino all’800 dalle donne delle valli altolariane era un tributo a Santa Rosalia. Conosciuto infatti come “abito delle Moncecche”, si ispirava a quello indossato dalle devote palermitane (le pinzocchere) della Santa, a sua volta imitazione dell’essenziale capo utilizzato dalla santa eremita.

E, sorpresa nella sorpresa, pare sia molto probabile che il termine “pinzocchere” – grazie alla capillare diffusione del culto di Santa Rosalia in tutte le valli altolariane e valtellinesi – abbia ispirato l’uso della parola con cui venne poi chiamata la famosa e tipica pasta della stessa Valtellina (una piccola tagliatella di grano saraceno), denominata appunto “pizzocchero”. L’autorevole Vocabolario della Lingua Italiana della Treccani, infatti, fa risalire l’origine di tale termine dal più antico etimo “pinzocchero”, ovvero persona che, laica o religiosa, conduce una vita devota.

Santa Rosalia a Livo. Foto di Giacomo Ganzetti

Quindi, facciamocene una ragione, da nord a sud e da sud a nord, l’Italia è sempre stata unita dai poeti, dai navigatori e dai santi. Ah, ovvio, e anche dalla pasta.

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