Fondato a Racalmuto nel 1980

“Il destino è troppo ‘sperto’, e ti prende pure in giro”

In un vortice di ricordi, emozioni, risate, parole e riflessioni diamo la parola all’eclettico e poliedrico Raimondo Moncada

Leclettico e poliedrico Raimondo Moncada

Di lui si potrebbe scrivere davvero tanto, anche un libro, ma abbiamo preferito che a raccontarsi fosse direttamente lo stesso protagonista di questa nostra intervista. Diamo la parola all’eclettico e poliedrico Raimondo Moncada, in un vortice di ricordi, emozioni, risate, parole e riflessioni.

Ciao Raimondo, principiare dai tuoi inizi mi sembra il minimo. Nasci giornalista (a Teleacras), ma poi intraprendi in contemporanea altre strade, come l’impegno nell’arte del nostro folklore. 

Se vogliamo principiare, nasco in Via Verdi, traversa della più popolare Via Manzoni, ad Agrigento, nell’appartamento sopra il panificio. L’odore di pane fresco avrà ispirato i miei genitori per concepire e poi far nascere il loro secondo figlio, il primo maschio della famiglia, perché poi ne verranno altri. Ancora si sente l’eco della voce delle vicine che a passaparola e applaudendo al lieto evento hanno gridato: “Masculu è! Masculu!”. Questo è il principio, anche senza tabella commemorativa a ricordare quanto è avvenuto nel 1967, esattamente un secolo dopo la nascita di Luigi Pirandello. Gli inizi, caro Antonio, sono importanti, perché ti profumano. Come è importante l’immediato trasferimento in Vicolo Seminario, sotto la Cattedrale, la frequentazione in pieno centro storico dell’asilo nell’istituto Schifani (ora crollato, nel cuore del centro storico) gestito dalle suore di San Vincenzo, lo spostamento al Villaggio Mosè, il vivere in periferia la propria infanzia e l’adolescenza. La frequentazione del Liceo Scientifico “Leonardo” (a indirizzo sperimentale artistico) sotto il manicomio, con l’insegnamento nei primi due anni del maestro Andrea Carisi – amico di mio padre Gildo Moncada – grafico e pittore. Sono gli inizi, sono influenze, è l’humus in cui sono cresciuto, col desiderio di seguire le orme paterne. Poi l’università, facoltà di Architettura, lasciata al principio. E, in dissolvenza, l’inizio in un grande buio di una nuova strada, mai figurata prima nella mia immaginazione: la televisione, il giornalismo, il folclore, la musica, la scrittura, il teatro. Inizio professionalmente nel 1990 come speaker e lettore di Tg a Primarete (per caso mi porta a fare il provino l’amico e fotografo Massimo Palamenghi). Dopo un anno e mezzo trasloco a Teleacras. Si apre un capitolo imprevisto della mia vita. Ne approfitto. Comincio a studiare dizione per i fatti miei. Frequento due laboratori di teatro allora affidati alla direzione artistica di Andrea Camilleri (tra gli insegnanti c’era anche un giovanissimo Gaetano Aronica). Conosco in quell’occasione Lucia, che poi sposerò, come “sposerò” la compagnia teatrale dei suoi genitori, Enzo Alessi e Tonina Rampello, con cui reciterò per tantissimi anni. Un matrimonio d’amore e di arte che sarà fondamentale: nuovi stimoli, altre strade, nuove conoscenze. Lascio l’università tradizionale e mi avvio su un sentiero che mi porterà a fare esperienze con tre gruppi folk (La Vallata, Gergent e Città di Raffadali), a essere cantante e autore di un gruppo di musica etnica (Accademia Tp), a scrivere cose mie in italiano e siciliano, a fare tournée in Italia e all’estero con i gruppi folk, la compagnia teatrale dei miei suoceri (prima Gruppo Teatro L’Officina e poi Accademia Teatrale di Sicilia) e con altri grandi artisti. Periodo indimenticabile.

Nella foto Raimondo Moncada con la moglie Lucia Alessi e la figlia Luna

E poi, dalla parola parlata passi anche a quella scritta, e diventi – permettimi – uno vero e proprio tsunami: Ti tocca anche se ti tocchi (che addirittura è stato ristampato in edizione economica), Dal Partenone di Atene al Putthanone di Akràgas, Mafia ridens, Chi nicchi e nacchi. Pungente ironia, raffinato sarcasmo, sano umorismo, sono la tua cifra stilistica distintiva, ma non l’unica. Il lettore nei tuoi primi libri si fa sì tante risate, ma poi alla fine il retrogusto è anche amaro…

Principiamo anche qui. Tutto inizia da un’opera che non hai citato. E che non è così facilmente citabile: Odissea, Ulissi, i froci e ‘na troia. Un’opera di teatro-cabaret scritta nel 2004 e rappresentata l’anno successivo con un gruppo di familiari e amici di Raffadali. Sul palco del teatro della “Posta Vecchia” ho pianto quando il cast è uscito dalle quinte a ricevere l’applauso del pubblico. È stato il mio battesimo, la dimostrazione a me stesso che potevo usare il potere della creatività per plasmare dal nulla qualcosa di mio. Una botta di grande autostima. In quel periodo ne avevo un gran bisogno. Sull’onda dell’entusiasmo sono venute fuori altre opere teatrali, canzoni, poesie, i testi che hai citato e altre opere ancora inedite che sono a lievitare nel cassetto. Ho sempre avuto un debole per l’ironia, l’umorismo, la satira. Forse per il mio carattere riservato, timido. Non si direbbe. Ma la timidezza è stata per tanto tempo un muro che ho aggirato anche con la battuta di spirito, fin dalle scuole medie.

E poi lo struggente Il partigiano bambino. Conosco il travaglio che lo ha visto nascere e crescere, e ti chiedo solo cosa questo libro ti ha dato.

Innanzitutto penso di avere dato qualcosa alla memoria di mio padre. Raccontare la sua storia, quello che ha fatto, è stato un atto di riconoscenza, un risarcimento postumo nei confronti di un ragazzino che fuori dalla sua Sicilia, nell’imperversare della seconda guerra mondiale, ha deciso di dare il proprio contributo alla Resistenza, al movimento di Liberazione dell’Italia e dell’Europa dal nazifascismo. Scrivere questo libro, tra le lacrime, mi ha aiutato a capire, a prendere coscienza delle mie radici, a liberarmi. È una storia che per gran parte non conoscevo. Dentro c’è il trauma di un’intera famiglia, quella di mio nonno Raimondo che, sessantenne, prima dello sbarco degli angloamericani in Sicilia e dello scoppiare del conflitto nell’isola, decide di vendere tutti i suoi beni nella sua Agrigento e di andare in Umbria, in un luogo che gli assicurano tranquillo e sicuro. Così non sarà. La guerra rovinerà una famiglia, segnandola per sempre. Mio padre rientrerà a casa mutilato, col corpo martoriato da una bomba a Sansepolcro, vicino Arezzo. A distanza di quindici anni dalla sua morte, ho cominciato a dare voce al turbamento interiore. Il libro è stato pubblicato nel marzo del 2017 da Ad Est Edizioni e da quel mese è stato presentato in diverse città (anche estere) e alla Camera dei Deputati. Sempre tra pianti incontenibili che collego a un dolore familiare che non si è placato. È stata stampata anche la seconda edizione con l’inserimento di nuovi tasselli e con allegato un librettino con la Costituzione italiana, figlia della Resistenza. Un’edizione pensata per i giovani, per le scuole che la pandemia ha poi bloccato.

Gildo Moncada

E a proposito di giovani, a loro hai pensato per il tuo ultimo libro, uscito proprio a inizio di quest’anno.

Si intitola E se tornasse? col punto interrogativo perché è una domanda, un dubbio, un timore antico. E ha come sottotitolo Messaggio ai giovani armati di smartphone. È uscito qualche giorno prima del 27 gennaio perché in questa ricorrenza è nato, come mia testimonianza, come figlio e nipote di chi ha vissuto il trauma della guerra, in occasione di una manifestazione di studenti di ogni ordine e grado che si è svolta alcuni anni fa nel plesso Miraglia dell’istituto Don Michele Arena di Sciacca. Mi chiedo e chiedo: e se quello che è accaduto tornasse oggi, con gli strumenti di oggi, con l’odio di oggi, con i social di oggi e non più contro gli ebrei, ma contro ad esempio noi siciliani, contro chi viene considerato diverso e additato come il nemico di turno, utilizzando lo stesso collaudato, scientifico copione di violenza e di pianificato sterminio degli anni Quaranta? Il tema non può esaurirsi il 27 gennaio.

Hai affrontato anche il tema della verità e quella della falsa verità…

L’ho fatto con il libro Fake news, manuale semiserio di sopravvivenza contro le bufale, scritto col sociologo Francesco Pira e pubblicato nel 2020 dalla Medinova di Antonio Liotta. Un libro sempre attuale che affronta, in modo scientifico ed anche ironico, umoristico, la pandemia del virus delle false notizie. Ma tu lo capisci che grazie alle nuove tecnologie la gente crede all’incredibile? Ma anche senza tecnologie. Un mio amico lo stesso giorno è stato dato per morto con un micidiale passaparola in quattro modi diversi. Il più fantasioso lo ha visto volare in un mare in tempesta con la sua barca. Con internet è poi tutto peggiorato. Le Fake news hanno trovato un terreno fertilissimo. E questo è molto pericoloso, anche per la tenuta della democrazia. Però sono molto utili, anche a giustificare un conflitto, anche a far la guerra, anche a delegittimare e uccidere le persone. Una gran bella utilità.

Sei anche interprete delle tue e delle parole di altri, in un misto di istrionismo e passione da palco che ho visto in pochi altri. Spettacoli, reading teatrali, letture e performance tra le più varie sono (per nostra fortuna, direi) ormai il tuo pane quotidiano…

Mi piace dar voce a quello che scrivo e a quello che ci hanno lasciato in eredità grandi autori. Pensa, è un’inclinazione che mi porto dalle scuole medie (ricordo la parte di Renzo nei Promessi sposi che hanno voluto che recitassi io e non i professori della mia classe alla scuola media Luigi Pirandello). Nella pagella finale, gli insegnanti hanno scritto di un adolescente che aveva delle innate doti recitative e mi consigliavano di coltivarle, di svilupparle. Al liceo “Leonardo” ho continuato. La mia professoressa di Italiano, Teresa Panzarella, fondò una compagnia scolastica di cui ho fatto parte. Ricordo ancora il gemellaggio con una compagnia di Somma Vesuviana, la collaborazione con il Piccolo Teatro Pirandelliano (con Pippo Montalbano e Lia Rocco tra gli insegnanti esterni) e la rappresentazione del Berretto a sonagli sul palco del Supercinema poi occupato da uffici di una banca e dalla sede della redazione agrigentina del Giornale di Sicilia dove ho pure lavorato. Poi l’ingresso nel Gruppo Teatro l’Officina di Raffadali e nell’Accademia Teatrale di Sicilia e la viva e quotidiana scuola di Enzo Alessi e Tonina Rampello. Scuola d’arte, d’umanità, di vita. Negli anni, quell’inclinazione è continuata per insopprimibile passione, collaborando con artisti e realtà artistiche locali. Negli ultimi anni ho intrapreso un lavoro multidisciplinare a quattro mani (le utilizziamo tutte) e a una voce con l’amico scrittore Fabio Fabiano, rispondendo a una proposta di collaborazione creativa espressa tantissimo tempo fa (avevo ancora il pannolino) a Rta, Radio Trasmissioni Agrigento. Con Fabio abbiamo fatto nascere un nuovo personaggio, Joe Pitrusino diventato poi Joe Pod, protagonista di diverse storie poliziesche in audiolibri e podcast. Storie che potrebbero diventare benissimo la sceneggiatura di un film con i diritti venduti a Hollywood (fammi sognare, è gratis). Poi con lo smartphone tuttofare scrivo, fotografo, riprendo, registro audio, monto video che condivido sui miei social e sul mio canale YouTube. Il cellulare è diventato la mia scrivania, il mio studio radiotelevisivo, il palcoscenico di un teatro, lo schermo di un cinema. Non riesco a fermarmi. È più forte di me. Mi sono fermato solo un anno, molto duro, difficile, vissuto a Bologna, in due ospedali. Mi sono chiuso, protetto, condividendo le lacrime solo con pochi e nella vita reale, non immaginaria, non virtuale, non finta.

Raimondo Moncada, con Lucia Alessi, al Tempio di Giunone nello spettacolo “Percorsi d’Amore”, di Gio Di Falco. Foto di Francesco Novara

Mi ha colpito qualche tempo fa la creazione di un gruppo su Facebook dall’inequivocabile titolo: Solo cose belle. Praticamente, uno stile di vita…

Il gruppo è nato da una necessità, quella di creare una comunità di persone sensibili, persone positive, persone creative, persone belle, persone vere nei social e nella vita reale. Credo nelle influenze. Sono esperimenti di condivisione, di libertà anche dalla dittatura dell’algoritmo. Ma basta sapere che ci siamo, che esistiamo, che esiste anche il bello oltre al tanto brutto che passa con facilità sui social. Certe volte, scrollando Facebook o anche Twitter, ho come l’impressione che esistano solo cose brutte e mi impressiono con tanta negatività. Condizioniamoci a vicenda, con cose belle. Sforziamoci, almeno, per difenderci, a contrastare la tendenza umana a porre attenzione alle cose negative.

Raimondo Moncada

Da te potrei solo congedarmi così: il futuro sa già che continuerai a scrivere, interpretare, cantare e leggere? Lo hai avvisato?

Il destino è una fortissima tendenza genetica che possiamo modificare. È la nostra sfida. Finora ho scritto per necessità, per diletto, per eccitazione, per togliere la nebbia, per cercare verità. Fino a quando stimolerò l’area del piacere e della necessità continuerò a scrivere storie, a dare forma all’informe, a cercare sponde. Scrivere è vivere. Puoi vivere scrivendo, puoi scrivere vivendo, anche nella sofferenza. La scrittura mi ha alleggerito anche di un macigno che il destino mi messo in testa negli ultimi anni. Ho diluito parte del suo peso emotivo nelle parole. Un peso che condiziona tutto, pure il sorriso, pure la visione del futuro, pure la tua vita quotidiana. Durante il mio anno a Bologna, steso su un letto, ho scritto tanto sul mio smartphone tuttofare. Lì c’è la memoria del mio percorso, del mio dolore, scritto e mai più letto. Un giorno lo farò. Fino a quando il destino me lo permetterà continuerò a scrivere, spero cose belle, non più di sofferenza. Lui lo sa. Non c’è bisogno di avvertirlo. Il destino è troppo sperto e ti prende pure in giro.

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