Fondato a Racalmuto nel 1980

Una storia che sembrava ormai smarrita tra le nebbie del passato

Dimenticata tra polverose carte, ma che all’improvviso ha deciso d’apparire e farsi scoprire

Santa Elisabetta: Palazzo Casà. Foto di Ignazio Catalano

Quella di seguito raccontata è una piccola storia che sembrava ormai smarrita tra le nebbie del passato, dimenticata tra polverose carte, ma che all’improvviso ha deciso d’apparire e farsi scoprire.

Tutto ha avuto inizio intorno alla metà dell’800, in un piccolo paese dell’entroterra agrigentino, Santa Elisabetta, allora popolato da poco più di un migliaio d’abitanti, tutti agricoltori o pastori, o entrambe le cose. Un fazzoletto di terra (che sarà poi individuato come la Val di Cometa), in cui le case erano semplicissimi monolocali eretti con pietre di gesso – minerale tipico della zona – e nulla più, tranne che per la presenza, nella parte alta del borgo (chiamata ‘u Bastiuni), di un imponente edificio, a due piani, con un seminterrato per le provviste e lo stallaggio, un’ampia veranda e uno scenografico ingresso, con tanto di scala e portale. Totalmente diverso rispetto al contesto urbano in cui si trovava, era (e ancora oggi è, anche se in fase di restauro) caratterizzato da un’esposizione a sud in direzione di un panorama che poche altre costruzioni potevano vantare: una vallata con dolci colline a perdita d’occhio fino a incontrare il mare africano che diventava un tutt’uno con l’orizzonte. Lo stabile non aveva un nome ufficiale, ma tutti in paese lo avevano sempre chiamato “Palazzo Casà” o “di don Gilò”, dal nome del proprietario che lì lo fece costruire, l’agrigentino Girolamo Casà, notabile innamoratosi dei luoghi sabettesi.

Quindi, la nostra storia, adesso, prosegue incrociando le vicende della famiglia Casà, che decise di fare del palazzo sabettese la propria residenza estiva, il luogo in cui trascorrere i caldi mesi della bella stagione e dove fu fatto nascere anche uno dei figli della coppia, Francesco (unico componente dell’originaria famiglia Casà nato a Santa Elisabetta). Ed è a questo punto che la nostra attenzione si sposta sulla vita del rampollo di famiglia, giovane che si appassionerà agli studi – diventando poi avvocato – e anche alla gestione delle proprietà di famiglia (tra cui l’amata casa estiva di Santa Elisabetta, dove trascorse molti periodi di vacanza) proprio in un momento in cui la “questione agraria” era già fortemente emersa, tanto da generare prima la nascita del movimento d’ispirazione socialista dei “Fasci siciliani” e, poi, le conseguenti sommosse contadine. Fu in quegli anni che Francesco Casà concepì – insieme ad altri suoi amici – l’idea d’intraprendere un’avventura, allora, in assoluta controtendenza, ovvero fondare una banca che, oltre ai tradizionali servizi di credito, elargisse anche piccoli prestiti ai contadini, cosicché gli stessi potessero acquistare dei loro piccoli lotti di terra di cui disporre per il sostentamento delle proprie famiglie. Ecco, quindi, la svolta: il 30 novembre del 1909, nella dimora agrigentina dello stesso Francesco Casà, di fronte al notaio Tommaso Picarella, a due testimoni e alla presenza dei venticinque soci fondatori, venne costituita una società per azioni denominata “Banca di Girgenti”, avente un iniziale capitale sociale di 100.000 lire, formato da cento azioni da 1.000 lire ciascuna. E sempre dal Bollettino Ufficiale delle Società per Azioni (Anno XXVIII – Fascicolo XXVII) del 7 luglio 1910, si apprende che i soci decisero di nominare come primo direttore della neo costituita banca, proprio uno dei principali fondatori, Francesco Casà.

In seguito, le vicende della Banca di Girgenti, come quelle di tutti i piccoli istituti bancari, furono caratterizzate dal complicato e difficile andamento politico-sociale della prima metà del ‘900, che, tra due guerre mondiali, il ventennio fascista e la ricostruzione post bellica durante una giovane Repubblica, rese fortemente altalenante il concreto perseguimento degli obiettivi prefissati all’atto della sua fondazione. Attività che venne però comunque svolta durante i primi settant’anni di vita della Banca di Girgenti, fino ad arrivare al periodo più oscuro, quello tra gli anni ottanta e i primi anni novanta, durante i quali gli ultimi eredi dei soci fondatori decisero di vendere l’intera proprietà a una società finanziaria, così innescando gli appetiti politico-affaristici che poi portarono a un clamoroso crac e alla fine del sogno di un istituto nato (anche) per aiutare i meno fortunati.

Ma questa, ovviamente, è tutta un’altra storia.

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