Fondato a Racalmuto nel 1980

Conosce i segreti dei libri e degli scrittori di ogni tempo

Conversazione con Salvatore Ferlita, docente universitario, saggista e critico letterario. Da qualche settimana è in libreria il suo nuovo saggio “Pirandello di sbieco”

Salvatore Ferlita. Fotografato da Angelo Pitrone 

Da qualche settimana è in libreria “Pirandello di sbieco”, il nuovo saggio di Salvatore Ferlita, pubblicato da Sellerio. “Ferlita si legge nella quarta di copertina – mostra in queste pagine quanto ci sia di sconosciuto, di nascosto e di velato, in uno scrittore studiatissimo qual è Pirandello. Basta guardarlo «di sbieco», cioè andando a scovare capitoli, atteggiamenti mentali e culturali, contenuti e temi passati inosservati o considerati poco significativi…E guardando Pirandello dal giro dei suoi angoli bui, dal fondo dei suoi «buchi neri», che se ne scorge la più vera e inquieta modernità…”. Ne parliamo con l’autore del saggio, che conosce i segreti dei libri e degli scrittori di ogni tempo.

A chi si rivolge Pirandello di sbieco

“L’ho scritto con l’intenzione di destinarlo prima di tutto al lettore curioso, che prova a spingersi al di là della cortina di fumo, che magari non si accontenta dell’identikit che i libri di scuola hanno fornito di uno degli autori più decisivi e inquietanti del secolo scorso; un autore intempestivo per il suo tempo, ma che oggi risulta più che attuale. Mi pare superfluo aggiungere che ho immaginato come interlocutori privilegiati i docenti, quelli di buona volontà, quelli meno ‘luperinizzati’ diciamo così”.

Quanto tempo c’è voluto per completarlo?

“È il risultato di tanti anni di studio e di ricerche: son partito dalla vulgata, dalla bibliografia cristallizzata, provando a immagazzinare le informazioni e i dati fondamentali. Poi, però, ho scelto dei sentieri laterali, poco battuti, nel tentativo di illuminare il volto corrusco di Pirandello da un’angolatura inedita, inaspettata. Le sorprese son state tante”. 

Perché la poesia di Pirandello non è amata dalla critica letteraria e Pirandello come poeta risulta incompiuto?

“Il motivo è ovvio e insieme paradossale: Pirandello voleva a tutti i costi conquistare la fama ma da poeta. Si tratta di una questione che riguarda tanti autori: è curioso che i grandi della letteratura, all’inizio, non riescano a vedere loro stessi se non nelle vesti di autori di versi. Può darsi che in Pirandello questo fosse il retaggio della sua formazione umanistica: assieme a Pascoli, a Carducci, l’autore di Mal giocondo è stato docente universitario, misurandosi con la tradizione poetica da studioso e covando il virus misterioso della poesia, che va sempre intesa come la disciplina della prosa. È innegabile che la produzione narrativa e poi quella drammaturgica abbiano avuto un tale peso da schiacciare tutto il resto. Ma c’è pure da mettere in conto il fantasma di d’Annunzio, l’antagonista per antonomasia, il “collega” che per la sua attività poetica lo oscurò e lo ossessionò”.

Cosa si intende per poesia capovolta?

“Una poesia fuori di chiave, che Pirandello vergava mettendo le parole di traverso. Laddove egli si libera del fardello della tradizione, cioè quando riesce a esorcizzare l’angoscia dell’influenza, risulta meno condizionato, meno ossessionato dall’idea di appartenere a una tradizione. E lì Pirandello è come se avesse stabilito un canale sotterraneo tra le carte romanzesche, saggistiche e i versi, in un sistema di vasi comunicanti impressionante. Mi riferisco alle poesie che anticipano, ad esempio, la poetica dell’umorismo”.

Pirandello ha iniziato a comporre poesie a 15 anni e ad un certo momento si ribella con una lettera e scrive che si sente il poetino da salotto.

“Quella è una lettera che ci fa sentire la carica esplosiva dell’immaginario di Pirandello e, insieme, la sua frustrazione. Vorrebbe esser preso sul serio ma avverte il rischio di essere considerato con commiserazione. È lì che si gioca il destino dell’autore, invischiato nella poesia, legato a doppio filo a Graf e Carducci, ma nello stesso tempo smanioso e inquieto”.

Esiste un taccuino segreto di Pirandello e cosa contiene?

“Abbiamo il taccuino di Bonn, che è una fonte preziosa: leggerlo significa farsi un giro nel cantiere di Pirandello, assistere ai suoi lavori in corso. È una specie di laboratorio, dove egli sperimenta, rischia, ma soprattutto riscrive. È stato un variantista accanito”.

Pirandello e la disaffezione della giustizia con gli avvocati sottili. La giustizia è un congegno indiavolato, come per la campagna è la mala annata… Dove e quando nasce questa rabbia contro gli avvocati siciliani “sperti, nati con gli occhi aperti” in un paese di gente acuta e sospettosa nata per le controversie?

“Mi sa che nei siciliani ci sia qualcosa di atavico, di ancestrale. Una specie di idiosincrasia nei confronti dei tribunali e degli avvocati. Lo ha detto Sciascia, ovviamente, guardando alla storia isolana, anche remota. Pirandello, però, ha in più una sensibilità parossistica, che gli consente di intercettare e poi restituire tutte le aberrazioni legate all’amministrazione della giustizia. Da qui la mia ostinazione nel voler ripercorre alcune delle sue novelle più note, allineate a quelle poco lette o sempre ignorate, per ricavarne un paradigma indiziario”.

Cosa intendi per lettura “contropelo”?

“Una lettura che raschia, muovendosi in senso contrario rispetto al già noto. Su Pirandello gravano formule critiche ormai obsolete, ai suoi libri si è attorcigliata, come l’edera, una critica scolastica banalizzante e liquidatoria. Cioè Pirandello si studia con lo stampino, sai già quello che ti aspetti e, ovviamente, il risultato finale è sclerotizzante. Se lo leggi contropelo ti accorgi anche della sua sgradevolezza”.

Girgenti viene definita da Pirandello il paese morto, di corvi, preti e trenta campane a lutto…

“Pirandello guardava a Girgenti come a una specie di serbatoio cimiteriale. Una città tronfia, superba, tracotante: che viveva di una gloria oramai spazzata via. Una città che si erge sulle sue macerie: ai suoi occhi i templi risultavano uno smacco, la memoria del passato era un fardello inesplicabile (poco è cambiato da allora)”. 

Il diavolo frequenta le università tedesche. Cosa contiene questa espressione?

“Stai citando Brancati, che provò a decriptare il ghigno pirandelliano, la sua espressione beffarda e mefistofelica. Si tratta di una trovata suggestiva che, in esergo, contiene una verità incontrovertibile: se Pirandello non fosse andato a Bonn, dove conosce la grande filosofia, gli studi sulla psicologia, sarebbe stato una brutta copia di Capuana”.

Pochi sanno che nella famiglia di Pirandello erano tutti appassionati di pittura e che Luigi fosse un pittore narratore. L’hai raccontato con molti dettagli anche sulla preferenza dei colori freddi da parte del futuro Premio Nobel.

“Casa Pirandello era una specie di fabbrica di talenti: Luigi, grandissimo, inarrivabile nella prosa e nel teatro, con la passione per le tele e i pennelli ma senza alcuna originalità, conformandosi ai cliché; Fausto, che spariglia la tradizione pittorica puntando sul rimosso, sull’inespresso, deformando anche violentemente la realtà per esprimerne le torsioni più angoscianti. E poi Stefano, il più dannato tra tutti: scrittore come il padre, che aiutò, diventandone non solo il segretario ma, in certi casi, anche il ghostwriter. Per lui il cognome fu una specie di maledizione, di stigma terribile”.

La Roma di Pirandello degli alberghi maleodoranti, degli scandali della banca romana, degli impiegati brutti e miseri e i letterati tromboni. Pirandello non amava Roma?

“Penso di no, se proviamo a servirci delle novelle alla stregua di un termometro. Di Roma Pirandello mette in evidenza le budella putrefatte, ma pure il verminaio della corruzione (un Pirandello quasi paradossalmente leghista)”.

È sorprendente il rapporto tra Pirandello e le donne. Il suo sogno si realizza in Germania a Bonn con Jenny in una festa di carnevale. A questa ragazza ha dedicato due libri.

“Lì finalmente Pirandello è libero dai legacci, dismette la corazza da meridionale inibito e tradizionalista. Viene sfiorato dell’euforia e dalla frenesia dell’es. Un Pirandello dionisiaco, vitalistico, a tratti delirante”

Ma tu parli anche dell’orrenda notte di Como con Marta Abba: cosa successe in quella circostanza?

“Sarebbe meglio chiedersi non successe: Pirandello, tornato da Bonn, ci appare di nuovo catafratto, chiuso nella corazza delle idiosincrasie, delle remore, delle inibizioni. Il sesso per lui diventerà una specie di trappola, di vischio avvelenato”.

Pirandello e il fascismo: un rapporto tormentato sin dall’inizio, con un finale teatrale che di fatto sconfessa?

“Questo è un capitolo ancora aperto: c’è chi dice che per natura Pirandello non poteva essere fascista, c’è chi asserisce che fu fascista sino al midollo. La verità sta nel mezzo, come si dice? Da parte sua ci furono atteggiamenti plateali, prese di posizioni smaccate; a volte fece dichiarazioni quasi imbarazzanti, ma teniamo conto che Pirandello, da capocomico diciamo così, dovette ingoiare qualche rospo in certi casi pur di garantirsi un palcoscenico. Poi va ricordato che uno scrittore parla soprattutto attraverso le sue opere: leggiamo allora “Il fu Mattia Pascal” e “I giganti della montagna” per farci un’idea di cosa pensasse l’autore della politica, di come vedesse il futuro prossimo venturo in termini di propaganda, di comunicazione falsata e pilotata”.

Perché il Risorgimento è stato tradito?

“Perché non mantenne le promesse, rivelandosi una specie di gigantesca pietra tombale sulle aspettative, sulle speranze. In questo senso la letteratura siciliana rappresenta davvero il contraltare corrosivo rispetto all’ideologia bacchettona del Nord. Le pagine di Verga, Pirandello, Tomasi, Sciascia, Consolo, Camilleri sono uno straordinario contravveleno. Peccato che ancora, specie a scuola, la retorica risorgimentale tarda a essere smascherata; andrebbe invece fatto, senza però cadere nelle pericolose esemplificazioni e rivendicazioni faziose di certo pseudogiornalismo”.

Quali sono gli altri libri su cui stai lavorando?

“Ho appena finito di curare la riedizione dell’ultimo romanzo di una grande scrittrice siciliana, Maria Messina: si intitola “L’amore negato”. Un romanzo terribile, per niente consolatorio: l’avevo letto una ventina di anni fa la prima volta, rileggerlo di recente è stato quasi traumatico. Dopo Pirandello, la Messina è forse la voce più intensa, originale e inospitale della nostra letteratura. Altro che scrittura rosa, il suo è un inchiostro nerissimo. Mi piacerebbe mettere mano alle mie carte sciasciane prima o poi, spero che non mi passi la voglia”.  

 

 

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