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Il bello nell’era della globalizzazione

Anche l’estetica, nell’era della globalizzazione, si presenta come campo di studio in continua evoluzione

Olinda Lo Presti

Viviamo il tempo delle continue trasformazioni geo-politiche, economiche e sociali. Viviamo l’era della globalizzazione e delle connessioni comunicative multiple.

Anche l’arte non è rimasta immune a questi cambiamenti ed è un terreno fertile per l’esplorazione di nuove concezioni che sfidano le tradizioni e aprono nuovi sviluppi imprevedibili.

Verso la metà degli anni Sessanta si è assistito al successo della “Pop Art” e, negli anni ottanta, al ritorno prepotente alla pittura con la “Transavanguardia” italiana e i “Nuovi Selvaggi” Tedeschi.

Dagli anni Ottanta in poi fino al nuovo millennio, continua ancora a crescere la popolarità di un’arte che propugna il “pensiero debole” della post-modernità di cui è figlia la globalizzazione.

Questi movimenti sono stati cruciali per la messa in discussione della definizione stessa dell’arte e della percezione della bellezza, aprendo nuovi modelli di pensiero.

Nel passato la bellezza era spesso considerata scopo supremo dell’arte. Invece l’arte contemporanea abbraccia l’ambiguità, la provocazione e la sperimentazione.

Anche l’estetica, nell’era della globalizzazione, si presenta come campo di studio in continua evoluzione, che si interroga sulle trasformazioni culturali, sulle nuove espressioni artistiche e culturali in un mondo sempre più complesso, dove la tecnologia innovativa e la enorme mole di dati che si acquisiscono sono parte integrante della nostra società.

Benjamin in “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” (1936) ha affrontato il cambiamento radicale che la tecnologia stava apportando all’arte e alla cultura e ha riconosciuto che la tecnologia stava creando una società massificata in cui le opere potevano raggiungere un vasto pubblico.

Adorno, invece, ha sviluppato una profonda critica nei confronti della società moderna e del capitalismo avanzato ed ha contribuito ad una visione articolata dell’arte contemporanea, perché ne riconosceva la complessità e le dissonanze sociali.

Per lui l’opera d’arte non dovrebbe nascondere, ma esprimersi in modo critico.

Nella filosofia, una delle idee secolari che ha influenzato con forza l’arte, è la nozione di forma, definibile in due modi: la prima come forma sensibile e la seconda come forma intellegibile.

L’arte contemporanea spesso gioca con tale dicotomia sfidandone i rispettivi confini.

Ma se ci ponessimo di fronte ad un’opera prodotta dall’intelligenza artificiale a quale forma faremmo riferimento?

L’opera “Edmond Belamy” (2018), ci potrebbe aiutare, in quanto la stessa è il risultato delle reti generative avversarie (GAN) prodotte da un algoritmo. “Belamy” è il ritratto risultante da 15.000 ritratti dipinti tra il 1.300 ed il 1.800. Ciò nonostante non è una replica dei ritratti iniziali, ma è un’immagine inedita.

L’odierna società del controllo psicopolitico, domina le esistenze individuali e, contemporaneamente, raccoglie informazioni sugli aspetti più personali della nostra esistenza.

Nel mondo globalizzato e nell’ambito dei processi culturali, che portano allo stordimento collettivo della comunicazione e della condivisione falsamente libera, enormi masse di dati sono rese poi disponibili, per la commercializzazione da parte degli apparati del potere economico-sociale e politico.

In questo contesto generale l’esperienza del bello sembra, oggi, irraggiungibile, per non dire  impossibile.

Al tempo di internet e della globalizzazione il “Dataismo”, con la grande massa di informazioni raccolte e poi scambiate lungo le vie tecnologiche e monetarie della Rete Globale, impone nuove catene alla libertà di giudizio individuale e alle sue visioni estetiche e impone una sorta di nuova forma di religione o ideologia, il cui flusso di informazioni è considerato come valore supremo.

Il Dataismo, rappresenta una visione in cui i Dati sono al centro di tutto, per tale ragione la nostra società sta evolvendo verso questa filosofia.

Non a caso il sociologo Harari prevede che, prima o poi, gli esseri umani daranno agli algoritmi l’autorità per prendere decisioni importanti.

La salvezza del bello, oggi, potrebbe rappresentare un appello a considerare la bellezza non solo come oggetto, ma come esperienza profonda e significativa che va oltre la superficie.

In un’epoca segnata da conflitti, violenze e ingiustizie, la bellezza potrebbe, pertanto, essere la via di fuga dal caos e dall’odio.

Secondo Dostoyski “La bellezza salverà il mondo”. Ma in realtà, oggi, è forse il mondo che deve salvare la bellezza, cioè l’essere umano.

Umberto Eco nella “Storia della bellezza” sostiene “La Bellezza non è mai stata, nel corso dei secoli, un valore assoluto e atemporale: sia la Bellezza fisica, che la Bellezza divina hanno assunto forme diverse: è stata armonica o dionisiaca, si è associata alla mostruosità nel Medioevo e all’armonia delle sfere celesti nel Rinascimento; ha assunto le forme del “non so che” nel periodo romantico per poi farsi artificio, scherzo, citazione in tutto il Novecento”.

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Olinda Lo Presti, pittrice

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