Fondato a Racalmuto nel 1980

“Dal sesto piano”

Il racconto della domenica

Marta Rederi

La brezza della sera sferza il mio volto inespressivo, mandandomi i capelli sugli occhi. Attraverso la loro cortina scura e agitata scorgo sprazzi di edifici, macchie grigie mescolate ai toni caldi del tramonto. I suoni della città in costante fermento mi giungono ovattati, rimanendo intrappolati nella coltre foderata di dolore della mia mente. Il cuore, ormai, non sente più nulla. Attraverso il cornicione con passi leggeri, avanti e indietro, avanti e indietro. So che non cadrò se non lo voglio. E voglio cadere? Chissà.

Quando qualcuno nota la ragazza che passeggia tranquillamente sul cornicione di un palazzo di sei piani è passata quasi un’ora. Finalmente penso. Se nessuno si è mai accorto di me in vita, forse lo farà adesso, quando sono a un passo dalla morte. Ma nel profondo so che non è questa l’attenzione che cerco. Sorrido amaramente. Vedo i passanti accalcarsi sul marciapiede, puntando in alto dita e sguardi. Le sirene in lontananza annunciano l’arrivo dei vigili del fuoco. Sembra la scena di un film. Per un attimo mi chiedo se sono veramente io, Libera Valenti, diciassettenne qualunque, a mettere in allarme tante persone con un tentativo di suicidio. Noto una figura staccarsi dal gruppo ammassato sul marciapiede e correre dentro il palazzo. Una manciata di minuti dopo a una finestra dell’ultimo piano appare la testa di Giorgia.

– Si può sapere che ti è saltato in mente? – grida ansimando. Non rispondo e riprendo a camminare sul cornicione. Ovviamente. A mia sorella non verrebbe mai in mente di interrogarsi sul perché io sia arrivata a tanto. Quello che fa è urlarmi che sono un’ingrata e un’incosciente e una sfilza di altri improperi.

– Dove sono mamma e papà? – la domanda mi esce involontaria. Giorgia mi guarda come se fossi impazzita. Forse lo sono.

– Ti serve altro pubblico? – sibila – Stanno ancora lavorando e di certo non sarebbero contenti di vedere la loro figlia minore spappolata sul marciapiede. –

– Mi stai facendo venire voglia di buttarmi. –

Sono arrivati i vigili del fuoco. Due di loro montano sulla scala che li porterà da me.

– Puoi tornartene di sotto – dico a mia sorella – io di qui non mi muovo. –

La sento sbuffare e riporto lo sguardo sul tramonto, che sembra dare il meglio apposta per me, nel tentativo di convincermi a non saltare. Inutile. Quando prendo una decisione la mantengo fino alla fine, rimanendo ancorata al mio punto di vista con una testardaggine esasperante. Scosto le ciocche di capelli dietro le orecchie, perdendomi per un istante nell’esplosione di colori sopra di me. Arancio, cremisi, oro puro, rosa pesca, indaco. Sento il richiamo dell’artista che è in me a trasformare quelle tonalità e quelle emozioni in un’opera indimenticabile. Sarà il segno che non voglio davvero buttarmi? Distolgo lo sguardo e lo punto sulle mie dita intrecciate. Sono lunghe e affusolate, graziose, perfette. Un moto di rabbia causato da questa vista mi ricorda perché mi trovo qui. Sposto un piede oltre il bordo del cornicione e mi godo la vista del vuoto sotto di me. Chissà cosa mi aspetta alla fine della caduta … Indietreggio e raccolgo un sassolino dal tetto del palazzo. Lo lascio cadere. Non lo vedo atterrare. Vorrei fare anch’io così: cadere e ridestarmi in un altro mondo, di certo migliore di questo. Inspiro a fondo l’aria della sera, che quassù è fresca e pura, libera dallo smog cittadino.

– Ehi! – sento qualcuno richiamare la mia attenzione. I vigili del fuoco mi hanno raggiunta e uno di loro mi sta chiamando.

– Ehi, ragazzina! –

Lo ignoro. È troppo tardi per farmi cambiare idea. Mi butto oppure rimango quassù per sempre, per me fa lo stesso. Mi siedo sul bordo del cornicione e lascio penzolare le gambe nel vuoto. Fingo di non sentire il vigile che cerca di persuadermi a scendere.

– … la vita è meravigliosa… – dice con scarsa convinzione.

– E lei pensa di sventare un suicidio in questo modo? – sbraito, prima di scoppiare in lacrime.

I vigili non ci stanno capendo più niente. Dalla strada mi giungono rumori confusi. Giorgia ha abbandonato la sua postazione alla finestra; starà raccontando a tutti i passanti i fatti miei, proponendo ipotesi sulle possibili cause del mio tentativo di suicidio.

– Potete anche andarvene – borbotto in direzione dei vigili, asciugandomi furiosamente le lacrime.

– Non ho intenzione di scendere da qui. –

Nascondo il viso tra le mani e resto così per un tempo indefinito. Quando alzo la testa la scala con i vigili è sparita. Respiro a fondo, tentando di mettere a tacere il dolore che mi opprime il petto e mi fa venire voglia di rannicchiarmi su questo tetto inospitale e piangere fino ad addormentarmi e non sentire più nulla. Fallo e basta sussurra una vocina dentro di me. Un salto e sarà tutto finito. D’altronde non è questo che voglio? Delusa dalla vita a diciassette anni, non voglio forse lasciarmela alle spalle come un vecchio ricordo per raggiungere una realtà migliore? Anche nei miei pensieri mi riferisco alla vita come a un qualcosa che non mi appartiene. Come posso dire di volermi togliere la vita, quando non l’ho mai sentita davvero mia? Quando l’illusione di star vivendo è scoppiata come una bolla di sapone, lasciando un vuoto sempre più grande?

– Ciao, Libera. –

Il mio nome, pronunciato con tanta enfasi, suona come una beffarda presa in giro. Libera di saltare, libera di morire. Ma, a quanto pare, libera non è, ancorata com’è a una vita che non è vita, ma della quale non riesce a disfarsi. Davanti a me, sulla scala dei vigili del fuoco, si staglia la familiare figura della mia insegnante di lettere, la professoressa Vigne. Mi asciugo in fretta gli occhi e le guance sporche di trucco.

– Buonasera – la saluto con voce spenta.

– Ciao, Libera – ripete lei.

– Passavo da queste parti e ho deciso di fare un salto da te, letteralmente – aggiunge sorridendo.

– Ci dia un po’ di tempo – prega il vigile che l’ha accompagnata; poi, con inaspettata agilità, mi raggiunge sul cornicione e si siede accanto a me, incurante di sporcare i pantaloni eleganti che indossa. Si veste sempre come un albero, di tutte le tonalità di verde e marrone possibili. Mi osserva da dietro le lenti degli occhiali.

Non sono mai riuscita a capire se mi piacesse, con i suoi modi schietti ma cortesi e l’inesauribile passione e interesse per noi ragazzi. Mi è sempre bastato prendere voti alti nei compiti in classe, senza entrare troppo in confidenza. Tuttavia, molti studenti ne parlano con grande ammirazione e affermano che è sempre disposta a offrire il suo aiuto o una semplice parola di conforto. Ma io non la voglio.

– Può anche evitare di stare qui a perdere tempo con me, – borbotto – io rimango qui. Può tornare a casa dalla sua famiglia e continuare a godersi la vita – su quest’ultima parola la mia voce s’incrina pericolosamente. Non voglio piangere davanti a lei. Gli ultimi raggi del sole s’impigliano nella sua coda di cavallo bionda.

– Vivere non è una perdita di tempo – replica – e ho l’impressione che tu, in questo momento, stia vivendo più di quanto tu non abbia fatto negli ultimi mesi, non è così? –

Le sue parole mi fanno crollare e un attimo dopo sono di nuovo sommersa dalle lacrime. La professoressa mi accarezza i capelli con gesti materni, facendomi piangere ancora di più.

– È così, prof – singhiozzo incontrollatamente.

– Non so più cosa voglia dire vivere, forse non l’ho mai saputo. È successo tutto d’un tratto: ho scoperto di essere vuota, di essere la controfigura di me stessa, una Libera Valenti modellata dagli altri, dalle circostanze, piatta, superficiale, inconsistente. E non pensi che sia una delle nostre stranezze adolescenziali, io non riesco a ricordarmi un momento in cui abbia sentito di essere veramente viva … – la inondo di lacrime e parole disperate.

– E lei? – riprendo con più foga – Lei può dire di aver mai vissuto per davvero? E gli altri? Non è forse tutto una grande illusione? Viviamo, ma non viviamo. E mentre ridiamo e brindiamo alle feste, il vuoto dentro di noi si allarga sempre di più. Perché siamo soli e lo saremo sempre. È crudele, ma è così. E intanto fabbrichiamo per noi stessi e per gli altri maschere di indifferenza e chi a un certo punto capisce questo grande inganno viene considerato pazzo e tagliato fuori dal grande gioco di illusioni creato da noi stessi … – boccheggio senza fiato. I caldi occhi castani della professoressa si spostano da me al tramonto, che ormai volge al termine.

– È inutile, è tutto inutile – ripeto, seppur lievemente sollevata dal fatto di aver mostrato a qualcuno la ferita che mi sta dissanguando.

– Sai perché porto questo nome? – parla infine la mia insegnante.

– Mio padre aveva una sorella di nome Agnese. Morì suicida molto giovane. Conobbi la sua storia quando avevo pressappoco la tua età. E anche se da allora sono trascorsi vent’anni, non passa giorno che io non ricordi le parole di mio padre quando mi raccontò di lei. Vivi anche per lei, Agnese, perché mia sorella non ha potuto farlo. Non disse non ha voluto. Agnese non era riuscita a sopportare il peso del suo dolore e aveva deciso di liberarsene, compiendo un salto verso l’ignoto. Ma mio padre tuttora è certo che lei volesse vivere. E lo credo anch’io, pur non avendola mai conosciuta. C’è tanta verità in quello che hai detto, ma la vita è più di questo. I momenti di sofferenza sono molto più frequenti di quelli di pura felicità, ma proprio quando brancoli nel buio impegni tutte le tue forze per ritrovare la luce. –

Dalla scala, il vigile la sta fissando a bocca spalancata.

– Non so se l’ho mai vista – mormoro.

La professoressa punta i suoi occhi nei miei.

– Devi andare oltre, seguire la tua vera natura, quella che ti fa vibrare e ti fa sentire viva insieme a tutto questo meraviglioso mondo. Le maschere si possono togliere, le persone si possono riscoprire: la vita trionfa sempre. Ognuno ha una storia da raccontare … e le nostre storie creano il più grande prodigio dell’universo: la nostra vita. Unica, speciale. Irripetibile. –

Si alza in piedi e mi tende la mano. E io la afferro.

__________________________

Racconto terzo classificato alla settima edizione del Concorso letterario nazionale “Raccontami, o Musa…”, bandito dalla Associazione culturale Musamusìa di Licata, presieduta da Lorenzo Alario, in collaborazione con la testata giornalistica online Malgradotuttoweb. Direttrice artistica del Concorso letterario la prof.ssa Angela Mancuso. Presidente della giuria Raimondo Moncada

 

 

 

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