Fondato a Racalmuto nel 1980

Maurilio Catalano, il pittore del mare blu che conquistò i grandi della Sicilia

Uno di quei casi rari in cui le opere sono state più famose del loro autore. L’amicizia con Sciascia, Guttuso e Buttitta

Maurilio Catalano

Oggi dedichiamo la mostra “memoria” a Maurilio Catalano, il pittore che conquistò con le sue opere i grandi della Sicilia. Catalano ci ha lasciato il 21 0ttobre del 2022. Affidiamo il suo ricordo ad un articolo di Giancarlo Macaluso pubblicato l’11 gennaio del 2022 dal Giornale di Sicilia e riproposto qualche giorno dopo dal nostro giornale. 

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A vederlo, nel suo salotto in una giornata d’inverno, col maglione pesante, i baffoni e la corona spettinata di capelli bianchi, fra decine e decine di tele che raffigurano il suo mare blu spavento, sembra un capitano in mezzo a una tempesta di polpi, barchette, granchi, balene, calamari, lampare, ancore, ami, pescherecci, reti.

A ottanta anni (li ha compiuti l’11 gennaio) è ancora sulla tolda di comando della sua fantasia. È uno di quei casi rari in cui le opere sono più famose del loro autore. Perché il nome di Maurilio Catalano, classe 1942, può non dire nulla a un giovane siciliano che però nella sua casa straniera da cervello in fuga terrà appesa alla parete una stampa con le mitiche barchette e un mare inconfondibile popolato da colorate creature; sono come una finestra sulla Sicilia marina, un affaccio su una Palermo distesa e meno problematica, uno sguardo sulla natura quieta e benigna che, però, proprio in quel profondissimo blu nasconde forse quel «fondo di terrore» di cui parlava Leonardo Sciascia. Le opere di Catalano reclamano attenzione, così come i colori netti di pesci e oggetti che fluttuano sulla distesa blu oltremare, come se facessero parte di noi e ci invitassero a galleggiare con loro, tra i quieti flutti, un antidoto alla distesa di ansie equipaggiare in assetto di guerra.

Da dieci anni si arrangia a casa per portare avanti il suo lavoro, strappato com’è stato dalla sua amatissima bottega-galleria di via Mazzini per una questione di sicurezza del palazzo. Spera sempre di ritornarvi, prima o poi, e con lui anche le figlie (Roberta e Chiara). Per rivivere ancora il profumo di quelle leggendarie giornate in cui fra salotto, giardino e l’officina coi torchi sciamavano personaggi che hanno fatto la storia dell’arte e della letteratura italiane. «Arte al borgo», si chiamava quel posto con le pareti affollate di olii, tempere, incisioni, gouaches, serigrafie, carboncini, disegni. E fin dagli anni Settanta, quando la inaugurò assieme ad altri due compagni di avventura, si affermò come un punto di riferimento di un raffinato milieu culturale, una delle poche fiaccole accese nel buio di quegli anni.

«La migliore galleria di Sicilia», dice oggi con un lampo di ironia. Rievoca: «La aprimmo io Raffaello Piraino e Andrea Volo all’inizio per esporre i nostri lavori». Pian piano diventa cenacolo, circolo culturale, bottega d’arte governata da lui, istrione, colto, un po’ guascone, a tratti hidalgo malinconico e dolce, come nella bella foto del suo grande amico Ferdinando Scianna. Conoscitore di uomini e cose, figlio d’arte ché il padre Eustachio fu pittore sopraffino, per le stanze della sua galleria è passata la meglio gioventù di penna e di pennello: Guttuso, Clerici, Guccione, Vespignani, Caruso, Buttitta, Consolo, Bufalino, Gatto. Di ognuno di loro conserva un ricordo, un aneddoto, un dettaglio rivelatore. «Una volta Tono Zancanaro dopo una doccia si buttò addosso un barattolo di due chili di borotalco. Diventò una specie di gigantesco fantasma. Gridai, Tono dove sei finito? E lui, Sono qua sotto, sotto il borotalco».

Catalano era uno dei pochi che a Palermo poteva vantare un’amicizia importante con Sciascia. Testimoniò al processo in suo favore  nella causa con Guttuso per le rivelazioni di Berlinguer sulle Brigare rosse. «Ero presente in certi colloqui, dovevo dire la verità anche se questo mi costò parecchio: Renato non stampò più da me le sue litografie. Un danno secco».

Sciascia gli voleva bene. «Non riuscii mai a dargli del tu, lo chiamavo professore». Lo scrittore aveva fatto della galleria uno dei suoi pochi punti di approdo palermitani. Ci stava come al circolo del paese, replicando antiche abitudini. «Incontrava gli amici, chiacchierava, discuteva di storia, attualità, letteratura, progetti editoriali». Numerosissime le cartelle d’arte, con testi dello scrittore di Racalmuto e dei suoi amici letterati accompagnati da incisioni, arricchirono la produzione di «Arte al Borgo» diventato presto un prezioso indirizzo per pressare e ottenere litografie di altissimo livello. «Alcune marine di Pietro Guccione – racconta – vennero stampate così bene che lui volle per sé quasi tutta la produzione».

Maurilio oltre a essere l’artista amato e rispettato che è diventato, a lungo ha insegnato all’accademia delle Belle arti fumando molte sigarette come uno dei suoi vaporetti e coltivando una vista molto lunga in fatto di movimenti e avanguardie. Negli anni Settanta porta a Palermo la mostra di Enrico Castellani, uno degli artisti della seconda metà del Novecento più importanti. Le sue tele estroflesse, movimentate con l’utilizzo di chiodi inseriti nel retro, come una sorta di punzonatura ripetuta, sono diventate celeberrime. «Pochi oggi lo conoscono. E anche allora, nessuno capì. Castellani – ricorda Catalano – qua non vendette nemmeno un quadro. Oggi se ne hai uno ci compri un appartamento».

Ride, tuona, gioca, rievoca, s’acciglia, detesta la mascherina che invece le figlie gli impongono per proteggerlo dal flagello del Covid e un po’ ci marcia con la sua presunta sordità, in fondo utile quando non gli va di capire qualcosa. Indubbiamente è uno dei palermitani che meglio di ogni altro può raccontare a volo d’uccello vizi, vezzi e virtù di una città non sempre all’altezza «Ricordo come uno spettacolo, in certe serate, Sciascia e Ubaldo Mirabelli (storico dell’arte e musicologo, fu sovrintendente del teatro Massimo, ndr) si sfidavano su un avvenimento storico. Date, dettagli, personaggi, eventi, citazioni. Due mostri, non vinceva mai nessuno». Mentre Sciascia sbaragliava le gare a chi portava dai paesi i dolci più buoni: «Una volta portò un cuscus di pistacchio formidabile». E poi ancora Sciascia, con la paura del mare: «Era il 1979, il soprintendente Vincenzo Tusa – rievoca Catalano – mi chiamò che avevano trovato a Mozia una statua importante, il famoso giovinetto. Mi chiese di portare anche Sciascia. Arrivati a Marsala il tragitto verso Mozia si faceva coi piedi in acqua nello stagnone, il professore stette attaccato al mio braccio per tutto il tempo. Sembravamo due naufraghi verso la riva. Arrivammo e dopo avere visto la statua declinammo l’invito a visitare l’isoletta perché preferimmo raccogliere asparagi».

Dal Giornale di Sicilia, 11 gennaio 2022

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