Fondato a Racalmuto nel 1980

Dedicato a Wilma

Agrigento, ha destato profonda commozione l’improvvisa scomparsa di Wilma Greco: docente, scrittrice sensibilissima e operatrice culturale appassionata ed estremamente attiva

Licata. Wilma Greco al Premio “Raccontami, O Musa”. Vinse quell’edizione con il racconto “La bic nera”

Agrigento, ha destato profonda commozione l’improvvisa scomparsa della Professoressa Wilma Greco.

“Scrittrice sensibilissima e operatrice culturale appassionata ed estremamente attiva – commenta Angela Mancuso, docente di Lettere al Liceo Linares di Licata e direttrice artistica del Premio Letterario “Raccontami, O Musa”.

“Premio del quale – ricorda la professoressa Mancuso – Wilma aveva vinto la V Edizione con il bellissimo racconto “La bic nera”.

“Un grande dispiacere – commenta Raimondo Moncada, Presidente della giuria del premio – apprendere della tua improvvisa, prematura, ingiusta morte. Incredulo, come tutti. Non si può, non si può essere strappati a questo mondo, al tuo mondo, quando hai da vivere e da dare ancora tanto, tanto. Non ci sono parole, non ci sono risposte”.

Anche il nostro giornale si associa ai tanti messaggi di cordoglio che stanno giungendo ai familiari di Wilma Greco, tra i quali la sorella Rosellina Greco, Preside molto apprezzata dell’Istituto Comprensivo Agrigento Centro.

Wilma Greco, come ricordato da Angela Mancuso, aveva vinto la V Edizione del premio letterario “Raccontami, o Musa” con il racconto  “La bic nera”, già pubblicato dal nostro giornale e che oggi riproponiamo per rendere doveroso omaggio ad una donna molto stimata sia come docente che come scrittrice.

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I racconti di Malgrado tutto

La bic nera

di Wilma Greco

Ne è passato di tempo, ho perso le tue tracce. Continuo a pensarti, ad immaginarti ora “scomposta in mille coriandoli”, ora meraviglioso puzzle.

Nell’uno e nell’altro caso ad emergere sono i colori. Perché tu sei colore. Il verde dei tuoi occhi. Il rosso delle tue labbra. I calzini spaiati, uno bianco e uno fucsia. L’azzurro dell’orizzonte, sempre uguale e così diverso.

Eh sì, conservo ancora la tua lettera: “Ho imparato che gli orizzonti non sono quelli a quadretti che vedo dalla mia cella o che vedevo dalla stanza di casa mia; ho imparato che la vita diventa pesante quando è vuota, ed ecco la smania di riempirla con la droga e tutti gli espedienti di cui oggi sto sperimentando la sofferenza. Non è stato facile vivere la carcerazione, che non è solo la privazione della libertà ma anche il sentirsi ogni giorno giudicata, sotto esame, peggio che a scuola; con me implacabile arbitro e giudice di me stessa”.

Scritta a penna, come solo in carcere si scrive ancora. Più precisamente con la bic nera, nessun’altra penna è consentita dal regolamento.

E lì ore intere ad interrogarci, scervellarci su un regolamento che appare privo di ogni ratio. Sorrido!

«Cara prof, che significa ratio?», hai detto velocemente tamburellando sul banco con la bic nera. Era un gesto che facevi spesso e che innervosiva le tue compagne; anche me, in realtà.

«Motivo, principio, ragione» rispondo «e finiscila di fare rumore con la penna».

«E lei la finisca di parlarmi come la maestrina dalla penna rossa».

«Quale penna rossa? Primo, non sai nemmeno chi l’ha creata, la maestrina dalla penna rossa. Secondo, la penna rossa è tra le cose più vietate qua dentro. Vietatissima!»

«Infatti: non l’ho capito perché proibiscono il rosso. È una soperchieria. Comunque, cara prof, io l’ho letto il libro Cuore. Lo raccontavo ai miei figli quando li mettevo a letto» ribatti dolcemente.

Sembri spegnerti. Ma è un attimo. Riprendi vita: «Facciamo un gioco: rosso come…dai dai, tutte,
arrisbigliativi».

«Rosso come cuore, appunto».

«Rosso come coccinella. Quella pietra preziosa rossa? Il rubino: a casa ho l’anello che mi aveva regalato mia
zia zitella».

«Il sole al tramonto». La classe si anima.

«Le fragole e le ciliegie. Il peperoncino, piccante come una storia tra amanti».

«Il pesciolino rosso. Che gira intorno, come noi, mentre fuori c’è la vita che scorre».

«Rosso come amore. Passione».

«Gelosia? No no, quella è gialla!».

«Rosso come le rose. Rosso di sera vale pure? Perché almeno si spera! Ecco, rosso come la speranza».

«La speranza è verde – cretina – come la faccia dell’appuntato che la mattina entra per la battitura. Con il suo manganello sbarra dopo sbarra, chissà di notte e notte ne abbiamo segata una. Il fuoco, rosso è?».

«Fermi tutti, con questa vinco: cappuccetto rosso! Che era così scimunita da non accorgersi che il lupo si era travestito da sua nonna».

«E no! Caso mai vinco io: rosso come il vino. Minchia, quanto mi manca! Alla salute nostra e di chi ci vuole bene».

«Il sangue. Quando qualcuna di noi si taglia i polsi: per protesta, cara prof, perché qui in realtà non vuole morire nessuno. Abbiamo più voglia di vita di tutte quante voi là fuori. Tagliarci è un modo di urlare la nostra libertà su un corpo che qualcuno pensa non ci appartenga più. È per questo che ci tolgono gli specchi.

Vietato tagliarsi. Vietato guardarsi. Ci pensi, cara prof: qui anche la bellezza è vietata». Il discorso prende una piega seria.
Le tue compagne zitte, aspettate che io dica qualcosa. Vorrei dire che la bellezza, anche quando vietata, rimane bellezza. Magari sopita, nascosta, ma pur sempre bellezza. E quando riapparirà – perché prima o poi lo farà – metterà tutti sull’attenti, sarà come uno schiaffo, aprirà una feritoia.

Mi sento banale.

Mi salva l’agente: «La lezione è finita». Istintivamente guardo la sveglia sul muro. Dimentico sempre che gli orologi in carcere non funzionano. Tutti fermi ad una certa ora. Come la vostra esistenza, in time out.

E con quest’immagine carnale, di polsi sanguinanti, di specchi e identità frantumate prendo la via d’uscita, cancello dopo cancello.

Rigiro tra le dita la bic nera. Tu la rivestivi di carta colorata.

Entravo in classe con una bic nuova e puntualmente ne uscivo con una consumata. Me la ritrovavo nell’astuccio una volta giunta in casa. Eri velocissima in questo scambio, mi fregavi sempre.

Io: «Verò, ma che ci fai con le penne che ti durano mezza giornata?»

Tu: «cara prof, io scrivo; mica sono come lei…»

“Mica sono come lei”. Lei, cioè io, come sarei? Domanda che soffocavo dentro. Perché, sai, anch’io temo i giudizi, e l’essere dall’altra parte della cattedra non mi rende immune. Non mi rende diversa, né sicura di me stessa. In questo siamo uguali.

“Lei, lei era insopportabile con quel suo motto «La cultura rende liberi». Ma si rendeva conto di dove stavamo? Di quale libertà voleva parlare?”

Scritto nero su bianco: ero insopportabile!

Avevo tra le mani la lettera piena di cancellature, scarabocchi e ghirigori, che mi hai dato prima di tornare in libertà, tra il verde dei tuoi prati e l’arcobaleno dei fiori.

Proprio così: scarabocchi e disegnini in bianco e nero. Ecco cosa ci facevi con la bic.

Decine di penne barattate per leggere che ero insopportabile.

Mi sento ferita. E vorrei dirti che anche tu eri insopportabile, soprattutto quando io spiegavo la lezione e tu lì, imperterrita, una domanda dopo l’altra, senza darmi il tempo di comprendere se anche le tue compagne stavano al passo.

Ero curiosa come te da bambina.

Grembiulino blu e fiocchetto bianco, la più brava della classe, ma anche la più fragile: 20 kg senza pelle, facile bersaglio di frecce che miravano ad altri.

Come quella volta che in 3ª elementare la maestra ha mollato un ceffone al mio compagnetto, colpevole di non aver portato a termine i compiti. Quegli schiaffi li ho ricevuti anch’io. Li sento bruciare ancora, anche se non mi hanno mai colpito.

Ti ho raccontato dell’istante preciso in cui ho deciso cosa avrei voluto fare da grande? Tutta colpa di un apostrofo.

Compito in classe: risolvere un problema. Finisco in quattro e quattr’otto e mi avvio gongolante alla cattedra.

Non mi interessava il 10, che tanto ne portavo sempre a casa uno al giorno. Era il sorriso della maestra che cercavo, un suo gesto che me la mostrasse fatta di carne ed ossa e non solo di ferro. Di cuore, se ne aveva.

Lei non usava la bic nera, né rossa. Non le servivano le penne. Strappava direttamente il foglio.

I calcoli erano esatti ma avevo scritto il quesito – qual è l’area del triangolo – con un apostrofo in più. Qual’è!

Da questo magnifico errore ho imparato che avrei voluto fare la maestra, solo per essere diversa da lei.

«Perché in carcere?» Me l’hai chiesto più volte.

Perché tra queste quattro pareti, ferite da una porta di ferro e grate alla finestra, muri umidi e spogli, vestiti solo dei vostri disegni scoloriti, odoranti di muffa, cibo stantio e umanità?

Difficile da spiegare.

In ognuna di voi rivedo di me stessa una linea d’ombra, o di luce che poi è la stessa cosa. Dipende da dove si
guarda.

Sono come voi, l’ho già detto, nella vulnerabilità; ma non sono come voi; ognuna è un universo, nella sua irripetibile individualità e nella molteplicità di esperienze che hanno segnato la nostra esistenza.

Sai cosa mi differenzia da voi? Io ho già attraversato la terra di nessuno: quel luogo terzo diverso dalla partenza e dalla meta, quello che ci fa mancare il fiato, tremare la terra sotto i piedi.

A tutti, credo, capita di attraversarlo, a volte inconsapevolmente, altre volte con impegno di energie.

È forse questo il motivo per cui ho deciso di lavorare in un luogo di frontiera? Per accompagnarvi sulla soglia di un’altra voi?
Per trovare bellezza laddove nessuno immagina che possa esistere? Infaticabile cercatrice di ciò che sembra perduto. O piuttosto è un mezzo per dare un senso alla mia anima fragile?

Può essere! Può essere che davvero alcune scelte nascondano questa ricerca di senso e non escludo che nel mio voler stare nel cerchio con voi sia sospeso il filo per giungere a me stessa, a quella bambina, poi giovane donna, che non si è mai amata abbastanza.

Riprendo a scorrere la tua lettera:

“Con il passare del tempo conoscerla è stato un regalo per tutte noi: lei così solare e allegra, con quella capacità di ridere o piangere con noi; di guardarci dentro e farci sentire dure come il pane di ieri e delicate come un plumcake appena sfornato…e soprattutto importanti per qualcuno.

Prof, io non credo in Dio, non gliel’ho mai detto: temevo di essere giudicata da lei. Le si illuminano gli occhi quando parla del Padre e io in questo un po’ la invidio: non ne ho mai conosciuto la tenerezza, chissà forse è interessato a farsi i fatti degli altri. Non ho conosciuto neanche la tenerezza di mio padre. E i miei tre figli non conoscono quella del loro. Se penso a questo, se penso al mio ritorno a casa con loro e con mia madre, che paura mi prende! Mi sento come scomposta in mille coriandoli! Beh, ricomincerò da questo, dal rimettere insieme i pezzi”.

Eccola, la bellezza. E non solo quella. Nel cerchio cedono i confini, si insegna e si impara. Tu mi hai insegnato che la lotta fa parte della vita. La scelta non è tra accettarla o meno: la scelta è tra crollare, o andare sino in fondo per poi risalire e potere di
nuovo sognare; andare avanti senza inaridire, facendo appello a risorse intime che attendevano solo di essere
partorite.

Tolgo il tappo della mia bic nera, che ormai nessuno più mi soffia da sotto il naso, e comincio a scrivere anch’io.

Intanto ti vedo all’uscita del block house, l’ultimo cancello.

Ti fermi un attimo, senza voltarti indietro. Naso all’insù: l’orizzonte, libero, senza grate. Respiri a fondo: profumo di aria.

Sei una macchia di colore che si staglia nell’azzurro pallido del cielo.

Una figura sottile. Il tuo borsone, mezzo vuoto, in spalla, sembra che pesi più di te.

Speriamo che non scoppi la cerniera. Sei riuscita a chiuderla, imprecando, malgrado tutta la forza e la bellezza che vi hai compresso dentro.

Ne è passato di tempo, hai perso le tue tracce. Continui a pensarti, ad immaginarti, finalmente meraviglioso
puzzle.

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Il racconto di Wilma Greco ha vinto l’edizione 2021 del Dal Concorso Letterario Nazionale “Raccontami, o Musa”, concorso promosso dalla Associazione culturale Musamusìa di Licata, 

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