Fondato a Racalmuto nel 1980

Nei luoghi della memoria di Tomasi di Lampedusa

Itinerari. Viaggio alla scoperta dei magnifici palazzi aristocratici del “Gattopardo”

Valentina Dell’Aira

La Sicilia possiede da sempre un potere avvolgente, per le testimonianze culturali, per le bellezze paesaggistiche, per le sue tradizioni, per la sua luce e perché è indiscutibilmente quel “divino museo di architettura” decantato dai poeti.

L’opera e la vita di Giuseppe Tomasi ci conducono amabilmente in un viaggio alla scoperta dei magnifici palazzi aristocratici, che, come i siciliani, mostrano maggiore sfarzo nei loro interni più che nelle architetture della loro facciata.

Interno Palazzo Tomasi, Palma di Montechiaro (Foto Valentina Dell’Aira)

Figlio di Giulio Maria Tomasi (1868-1934) e di Beatrice Mastrogiovanni Tasca di Cutò (1870-1946), Giuseppe rimase figlio unico dopo la morte della sorella maggiore Stefania. Nella sua illustrissima discendenza appaiono i Tomasi legati ai Leopardi di Recanati, di origine bizantina. Nacque il 23 dicembre 1896 in via Lampedusa 17, alle spalle della prefettura, a Palazzo Lanza Lampedusa, che lo scrittore amava “con abbandono assoluto “ come afferma nei suoi Ricordi d’infanzia” (1955).

La madre, verso cui Tomasi nutriva un timore reverenziale, scelse di abitare la casa degli avi, anche dopo i bombardamenti, nelle uniche stanze rimaste agibili e lì morì; mentre Giuseppe e la moglie, l’affascinante psicoanalista Alexandra Wolff, andarono ad abitare in via Butera a Palazzo Lanza Tomasi. La residenza si erge magnificamente nel centro storico di Palermo, nel cuore del quartiere Kalsa, e fu nel 1768, il palazzo, Collegio Imperiale destinato all’istruzione dei nobili. Acquistato in seguito da Giuseppe Amato, Principe di Galati, subì sulla facciata importanti modifiche in stile vanvitelliano. Nel 1849 il palazzo fu acquistato dal Principe Giulio Fabrizio di Lampedusa, passando poi alla famiglia De Pace, ritornando infine a Giuseppe Tomasi. Oggi Gioacchino Lanza Tomasi ha riunificato l’intera proprietà, restaurando l’edificio in cui il piano nobile costituisce, in gran parte, la casa museo dello scrittore e custodisce i ritratti degli antenati insieme agli splendidi mobili, quadri ed arazzi provenienti dal distrutto Palazzo Lampedusa e dalla dimora di Santa Margherita di Belice. Dominano gli ambienti le opere di artisti moderni e contemporanei come Wilson, Pomodoro Paladino, Picasso.

Interno Palazzo Tomasi, Palma di Montechiaro (Foto Valentina Dell’Aira)

Il Palazzo Lanza Tomasi celebra maestosamente la “capitale”, restituendole il decoro ed il prestigio che merita, affacciandosi con la sua splendida terrazza, unica nel suo genere, sul lungomare. Nonostante ciò, Tomasi non amò mai quella residenza, preferendo sempre la “Scomparsa amata come essa fu sino al 1929, nella sua integrità e nella sua bellezza, come essa continuò dopo tutto ad essere sino al 5 aprile 1943 giorno in cui le bombe trascinate da oltre Atlantico la cercarono e la distrussero”.

Solamente dopo oltre 70 anni la “Scomparsa amata” casa natìa ha ripreso vita grazie all’iniziativa privata di recupero di alcuni cittadini palermitani, che hanno di fatto salvato un pezzetto di memoria storica, attraverso una ricostruzione ancora incompleta basata su una minuziosa analisi filologica lasciata da Tomasi nella meticolosa descrizione degli ambienti nelle sue memorie. Palazzo Lanza Lampedusa è l’identità di Tomasi, la sua vita, i suoi affetti che spesso si trasmutano in quelli del romanzo:”È superfluo dirti che il principe di Salina è il principe di Lampedusa, Giulio Fabrizio mio bisnonno; ogni cosa è reale […] Donnafugata come paese è Palma; come palazzo è Santa Margherita”; così testimonia una lettera trasmessa al barone Enrico Merlo di Tagliavia. Di contro, Palazzo Filangieri Cutò (XVII sec.), fu molto amato da Tomasi: “posto nel centro del paese, si stendeva per una estensione immensa e contava tra grandi e piccole trecento stanze…tre immensi cortili, scuderie e rimesse, teatro e chiesa privati, un enorme e bellissimo giardino ed un grande orto…”.

Castello di Montechiaro (Foto Valentina Dell’Aira)

La residenza apparteneva alla famiglia materna di Giuseppe e fu paragonata a “una specie di Pompei del Settecento“. Circondata da un rigoglioso territorio collinare, Santa Margherita è un centro fondato alla fine del ‘500 da Antonio Corbera sui resti di una  rocca araba. La struttura, con le sue eleganti architetture fu modello d’ispirazione per il palazzo di Donnafugata. Apparve così, in tutta la sua imponenza, a Maria Carolina d’Asburgo-Lorena, moglie di Ferdinando IV di Borbone, accolta a Santa Margherita dal principe Niccolò Filangeri di Cutò in occasione dell’ esilio murattiano del 1812. Dal ricordo della fuga della regina deriverebbe il nome di “Donnafugata”. Il palazzo, distrutto dal sisma del 1968, parzialmente ricostruito dal Comune di Santa Margherita Belice è oggi sede del Museo e del Parco del Gattopardo e custodisce la prima copia del manoscritto e del dattiloscritto del romanzo.

Ma la storia della famiglia Tomasi è legata a Palermo ed oltre ai luoghi che hanno resistito orgogliosi all’avanzare del tempo, vi è Villa Lampedusa a San Lorenzo ai Colli, che, di contro, versa in stato di completo abbandono unitamente al suo parco botanico circostante. La villa costruita come residenza suburbana all’epoca di Ferdinando IV di Borbone fu fatta edificare da don Isidoro Terrasi all’inizio del XVIII sec., passò poi ai Principi Alliata di Villafranca ed, infine, a Giulio Fabrizio Tomasi di Lampedusa, nota ai più  come “Osservatorio ai Colli del Principe di Lampedusa”. Ci piace immaginare un Giuseppe Tomasi immerso nei profumi della sua Palermo, delle pasticcerie Mazzara e Caflish, intento ad appuntare qua e là le ispirazioni più intime del suo valzer sentimentale.

Interno Palazzo Tomasi, Palma di Montechiaro (Foto Valentina Dell’Aira)

Una scoperta fu, invece, Palma di Montechiaro, fulcro originario della famiglia Tomasi: lo scrittore vi si recò soltanto un paio di volte nel 1955, appena due anni prima di morire. La cittadina fu fondata nel 1637 da Carlo Caro Tomasi, in seguito alla “licentia populandi” di Filippo IV di Spagna, fu però il fratello Giulio che diede impulso allo sviluppo religioso del paese con la costruzione della Chiesa madre, progettata dell’architetto gesuita Angelo Italia secondo lo stile del barocco siciliano. Il Convento delle Benedettine, costruito tra il 1653 e il 1659, inglobò il primo palazzo ducale e accolse con la regola cassinese anche le figlie di Giulio II duca di Palma ed in seguito la moglie Rosalia Traina, diventando, infine, luogo di sepoltura della Beata Corbera (Elisabetta Tomasi di Lampedusa). Dal parlatorio con volte a botte si accede ad un giardino ricco di alberi in cui è collocata una scultura della Madonna con San Benedetto. Il palazzo ducale, costruito dopo che il primo venne inglobato nel monastero delle Benedettine, mostra un’architettura semplice con due grandi facciate, una verso il mare e l’altra a oriente, unite a livello del piano nobile da un balcone angolare; esso  è ornato di soffitti a lacunari lignei dipinti che coprono le otto sale del primo piano. Ammirevoli i soffitti delle sale delle armi, quella degli ordini militari equestri e religiosi, quella dedicata interamente all’Ordine di San Giacomo della Spada di cui il duca Giulio era aggregato, quella con lo stemma ducale dei Tomasi, inquartato con gli emblemi dei Caro, La Restia, Traina e infine la sala angolare che conteneva l’arme dei Tomasi col leopardo rampante sul profilo del monte a tre cime. Palma insieme alla dimora di Calanovella del barone Lucio Piccolo, cugino affezionato, complice e rivale, poeta e compagno di giornate di riflessione nel parco della dimora affacciata sulle Eolie, aveva contribuito alla decodificazione del sentimento di morte miscelato allo slancio verso l’eternità attraverso la scrittura.

I luoghi di Tomasi emanano tutti, indistintamente, la discrasia di un mondo aureo e sfavillante alternato ad atmosfere cupe. La sua Palermo “lampedusianamente” incarna tutti i suoi paesaggi interiori e rende l’opera immortale. Le riflessioni del principe Fabrizio Corbera, su un  “nuovo regno senza tanti regali nel bagagliaio”, segnano profeticamente il percorso di declino e scomparsa di un mondo, di una storia, di un casato, di una Sicilia aurea, che fu anche straordinariamente europea. Il libro uscì postumo nel 1958, edito da Feltrinelli, ottenne nel 1959 il Premio Strega e divenne popolarissimo grazie al genio cinematografico di Luchino Visconti, nel 1963.

Chiesa Parrocchiale di Maria SS. del Rosario, Palma di Montechiaro (Foto Valentina Dell’Aira)

Il Gattopardo vive ancor oggi perché non è solamente una magnifica ed immaginifica creazione dell’ingegno letterario di Giuseppe Tomasi, ma è soprattutto un romanzo filosofico ed antropologico, capace di descrivere un mondo caleidoscopico, alimentato da sfaccettati panorami culturali, testimoniati nel fasto delle residenze, nell’austerità degli edifici sacri, nei profumi che attraversano i suoi scenari urbani, ma tutt’uno con l’indole della sua gente, isola nell’sola ancestralmente sprofondata in una insularità esistenziale.

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