Fondato a Racalmuto nel 1980

“Ecco perché voglio creare bellezza”

Nostra conversazione con la poetessa e scrittrice Bia Cusumano. “Quello dello scrittore è il mestiere più bello del mondo. Ti immedesimi nella vita degli altri, prendi anche il loro dolore e gli dai parola”. 

Bia Cusumano

La cultura, l’arte, la creatività, la bellezza per vivere e costruire in Sicilia, e non altrove. A Castelvetrano c’è un faro acceso. È quello di Bia Cusumano, poetessa, scrittrice, insegnante di Lettere al polo liceale Cipolla-Pantaleo-Gentile, presidente dell’associazione Palmosa Kore, organizzatrice del festival d’arte e di letteratura Palmosa Fest.

L’ho conosciuta a Sciacca in occasione di un incontro al RestArt 2023, il salotto artistico culturale del giornalista Giuseppe Recca che da qualche anno anima il bordo piscina di Bono Vacanze. È stato lo stesso Giuseppe Recca a invitarmi per leggere alcune poesie di Bia, dalla sua raccolta Come la voce al canto, tra dolore e amore. E in quell’occasione mi hanno molto colpito di lei la sua non nascosta esuberanza, la sua non nascosta voglia di essere, di mostrarsi amante della vita e delle sue varie forme di bellezza.

Un fiume in piena, travolgente, senza argini, senza paura del giudizio altrui. E perché? Perché farsi condizionare dagli altri e non splendere in questa vita tirando fuori i propri talenti, la propria femminilità, facendo scorrere impetuoso il fluido della propria identità, fatta di interiorità ed esteriorità, fatta di profondità e creatività, fatta di riflessione ed espressione, fatta di empatia e abbracci avvolgenti.

È questa l’impressione che ho avuto, anche quando ci siamo sentiti qualche giorno dopo al telefono, in una conversazione che ha completato il quadro uscito durante l’incontro con Giuseppe Recca, nel bel tramonto di Sciacca, con nuove luci, con nuove sfumature, con nuove scoperte, con nuovi scintillii.

Ci siamo sentiti dopo alcuni messaggi che ci siamo scambiati su Whatsapp. Io a digitare con i miei polpastrelli sulla piccola tastiera del cellulare. Lei a inviarmi solo vocali.

“In questo momento non posso scrivere. La malattia me lo impedisce”.

Bia soffre da piccola di fibromialgia, una patologia un tempo sconosciuta ma della quale si sta negli ultimi anni sempre più prendendo consapevolezza.

“Mi dicono che sono vulcanica, ma vivo anche giornate di sofferenza, di sconforto, di blackout. Convivo con il dolore cronico, sono imbottita di farmaci che hanno pure un impatto forte sugli organi interni. Il dolore ha costellato la mia vita”.

Lei ne è stata sempre condizionata. Tutta la sua vita ha girato attorno alla sofferenza, alla debilitazione. La fibromialgia è una malattia che all’esterno non si vede e chi ne soffre e spesso viene giudicato male, una sorta di malato immaginario. Bia ha col tempo imparato a capirla e a dialogarci pure. Scende quasi a patti con lei. C’è il momento della malattia che la tiene a casa, lontano da tutto e da tutti. E c’è il momento di Bia quando si riconquista l’uscita da quella porta di casa per giorni serrata. E quando esce alla luce del sole vuole brillare e si prende cura di lei, del suo corpo, del suo essere, per esorcizzare il dolore, per restituirle un’immagine che vive: va dalla parrucchiera a farsi i capelli, va dall’ estetista a tingersi gli occhi e le unghie, va nell’atelier per il vestito più gioioso del mondo per dire a se stessa: “Ci sono! Sono viva! Sono Bia! .

E allora scrive, e allora compone liriche: “Quello dello scrittore è il mestiere più bello del mondo. Ti immedesimi nella vita degli altri, prendi anche il loro dolore e gli dai parola. La scrittura ti permette di vivere tante vite e di trasporle in una poesia, in un racconto, in un romanzo”.

E allora entra nella sua classe di liceo e fa lezioni fuori schema, cercando il contatto profondo con i suoi alunni: “Quando entro in classe faccio il giro degli occhi e l’appello delle anime”.

E allora organizza appuntamenti artistici e culturali col suo Palmosa Fest incontrando scrittori, poeti, giornalisti, artisti. E allora la vita si amplifica, aumenta di volume, stordisce chiunque, senza misure: una sacra follia! Come il titolo della sua tesi dedicata alla poetessa Alda Merini. È andata a trovarla a casa sua, a Milano. Bia mi racconta quel folle incontro al quale è arrivato per tramite di suo papà e attraverso un amico docente universitario in contatto con l’agente della poetessa.

“Avevo ventiquattro anni. Per la prima volta mi avventuravo da sola in treno fuori dalla Sicilia. Mi presentai ai Navigli a casa della Merini il giorno prefissato. Bussai e ribussai. Ma quel giorno, nessuno mi aprì la porta. Una delusione enorme. Avrei potuto abbandonare il mio sogno, che coltivavo da ragazzina quando incontrai la poetessa in versi letti su un taccuino. E invece ho ritrovato le forze e mi sono ripresentata giorni dopo. Ho bussato e questa volta mi ha aperto. Mi ha detto: ‘Ma chi è? La signorina della tesi? Avanti, entri’. Ho capito dopo che la grande poetessa ha messo alla prova il mio sincero interesse verso di lei e la sua poesia. Ho resistito e sono rimasta a Milano e alla fine è andata bene”.

La tesi di laurea “La sacra follia” ha avuto il massimo dei voti, con l’aggiunta della lode. Stare e resistere, è più di un motto. Me lo ripete spesso. Una ragione di vita, che Bia insegna a scuola ai suoi ragazzi. “Perché se siamo siciliani, se siamo nati in questa terra, ci sarà un motivo. Ed il motivo non può essere quello di abbandonarla, di girarle le spalle. La sfida è rimanere, è lottare, è tirare il meglio da noi, è creare qui, abbattendo ogni ostacolo, anche culturale. Non sopporto il non fare nulla, il piangersi addosso. Se tutti andassimo via dalla Sicilia creeremmo un buco nero. È una missione, un impegno etico e antico: non tradire la propria appartenenza. Dobbiamo fare qualcosa di bello e costruire con le risorse che abbiamo. È facile quando le cose diventano complicate e difficili, anche nel dolore. Tutti vorremmo lasciare la nostra croce. Non si è uomini e donne se fuggiamo dal dolore. Bisogna trasformare il dolore in opportunità”.

Bia ha i suoi simboli e i suoi oggetti sacri. Uno dei suoi oggetti sacri è il faro a cui è legata perché sotto il faro di Capo Granitola, luogo per lei simbolico, ha cominciato a scrivere poesie.

“Il faro segna la direzione, dà la rotta, ti accende la luce nella notte più buia, ti dà un riferimento. La vita è come un viaggio tempestoso e il faro è lì, fermo, non si scompone, resiste e resta. Ognuno di noi ne deve avere uno. Io ho il mio e mi aiuta tanto a riprendere ogni volta la rotta quando tutto sembra perso”.

E Bia vuole essere un faro acceso, anche per gli altri, soprattutto per le giovani generazioni, da siciliana in Sicilia: “Voglio creare bellezza per dare ai ragazzi buoni motivi per resistere e restare”.

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