Fondato a Racalmuto nel 1980

Sciacca, quella sera d’estate del 1988

La città fu invasa da almeno centomila persone per il concerto di uno dei più grandi artisti del mondo

Sciacca. Foto di Raimondo Moncada

Aveva dormito tutto il tempo del viaggio da Punta Raisi fino al Grand hotel delle Terme. Era lì che avrebbe alloggiato. «James, piano con le pretese, guarda che qui non siamo mica all’Hilton». Pare che gli abbia detto così il suo manager.

Il giornalista Domenico Catagnano racconta che aveva chiesto che in camera gli portassero vagonate di ghiaccio. Perché James soffriva il caldo. L’aria condizionata non gli era sufficiente. Uno come lui, oltretutto, era abituato alle suite più lussuose. Qui gli offrivano un luogo dignitoso, certo. Ma non il livello di ospitalità a cui uno come lui era abituato.

Nella Cadillac nera dai vetri oscurati proveniente dalla Palermo-Mazara del Vallo c’era lui: mister James Brown. Non tutti a Sciacca sapevano che quella sera in piazza del Popolo si sarebbe esibito lui: il re del soul, l’anima del rythm and blues, l’icona del funk, il simbolo della “sex machine”. Il più grande artista del mondo, insomma. Genio e sregolatezza, il ritmo nel sangue.

Pagine e pagine erano state dedicate alla sua fenomenologia. Per niente affabile, dedito agli eccessi. Ma era un grande James Brown. E la sua follia attraeva. Non certo solo gli amanti della musica. Quella sera d’estate del 1988 Sciacca fu invasa da almeno centomila persone. Provenienti da tutta la Sicilia. Bivaccarono per il centro in attesa di assistere allo spettacolo. I saccensi ne erano incuriositi. Era arrivata gente di tutti i tipi. Estrosi, appassionati, ammirati dalla genialità del genio. Attesero per tutto il pomeriggio e anche oltre che la star arrivasse sul palco.

E nel frattempo scommettevano: sarà sobrio? Con che pezzo inizierà lo spettacolo? Semplice curiosità? No, non solo. I seguaci del boss della musica afroamericana si erano precipitati a Sciacca. L’invasione pacifica fu straordinaria. Si respirava l’aria delle grandi occasioni. Il popolo delle nove province si riversò alle Terme. A mangiare pane e panelle, a bere birra, a sorseggiare whisky. A ridere, a confrontare gli aneddoti di James che conoscevano. E poi a pompare “I feel good” a tutto volume dagli stereo portatili. In attesa che il maestro si facesse vedere. Alle 22 in punto la Cadillac scortata da una pattuglia della polizia giunse in piazza. Ne scese lui, James Brown in persona. In frac grigio, con tanto di panciotto. Occhiali scuri in faccia. Scortato dalla polizia, salì le scale del palco. Chiese del whisky mentre udiva soddisfatto le urla del pubblico.

La gente era lì tutta per lui. Non sorrideva, non parlava con nessuno. Per James Brown esibirsi era un lavoro come un altro. Nel quale però dava tutto se stesso. Con un cenno autorizzò l’orchestra ad introdurre lo spettacolo. I suoi assistenti lo accudirono. Tolse gli occhiali. Iniziò a cantare. Il pubblico di Sciacca andò in visibilio. La chioma nera impomatata di James Brown era inconfondibile.

La gente impazzì. Addirittura tra un brano e l’altro intonava “Alè òo”. Roba da stadio. Italiano, ovviamente. Tanto più che James Brown non capiva che cavolo significasse quel coro. Il fatto è che nessuno da queste parti aveva mai sentito un’orchestra esibirsi così. Grande musica. E poi il repertorio di James Brown. Tutto il repertorio. Un gran concerto. In mezzo alla folla c’era chi, con uno striscione, gli chiedeva di dire qualcosa in omaggio alla battaglia contro l’apartheid condotta da Nelson Mandela.

Probabilmente il maestro non seppe mai dove lo avessero portato. Inforcò gli occhiali. Tornò in albergo. Non ci dormì. Pretese che lo portassero subito via. Chissà perché.

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