Fondato a Racalmuto nel 1980

Agrigento, capitale in esilio della cultura

Far tornare gli agrigentini della diaspora, le intelligenze sparse per il mondo. Almeno per un po’, immaginare Agrigento come una vera capitale culturale

Agrigento, Valle dei Templi. Foto di Angelo Pitrone

Agrigento è una capitale della cultura in esilio, come i governi di certi Paesi occupati. Questo rende più difficile e più complicata la faccenda. Se non consideriamo i templi, costruiti da greci che non ci sono più da quasi tremila anni, il resto della costruzione culturale di Agrigento è in gran parte fatta da emigrati che hanno lavorato sulla memoria, sulla nostalgia, sul ricordo per realizzare il loro paesaggio culturale.

Le storie di Luigi Pirandello e di Andrea Camilleri ne sono la prova. Il primo, andò via per studiare – a Roma e a Bonn – a vent’anni e a venticinque anni si trasferì definitivamente a Roma, dove infatti morì: le sue ceneri furono riportate ad Agrigento, nella contrada Caos dov’era nato, oltre vent’anni dopo la sua morte. Eppure, da lontano Pirandello aveva costruito un paesaggio letterario e culturale che si identifica con Agrigento (la Girgenti dei suoi tempi) e che ne ha amplificato la leggenda, fino al punto che Agrigento e Pirandello sono una sola cosa, un metodo – se si vuole – di leggere il mondo e i rapporti tra le persone.

Andrea Camilleri lascia Porto Empedocle a ventiquattro anni e va a Roma per frequentare l’Academia D’Arte Drammatica: resterà a Roma per tutta la sua vita – a Roma è sepolto, nel cimitero acattolico del quartiere Testaccio – e a Roma, a poca distanza dalla casa in cui ha vissuto, è sorta, voluta dalle figlie, la Fondazione a lui dedicata che raccoglie documenti e testimonianze del suo lavoro di regista e scrittore. Con l’eccezione di Leonardo Sciascia che andò a vivere a Palermo, tornando ogni estate a Racalmuto, dove è sepolto, dove hanno sede la Fondazione a suo nome e la casa-museo in cui visse per. i primi trentacinque anni della sua vita, molti scrittori, artisti e animatori della vita culturale di Agrigento sono figli di una diaspora che, seguendo i percorsi dell’emigrazione, li ha disseminati per l’Italia e per il mondo.

Agrigento non è mai stata una capitale della cultura in senso classico. Non hai mai avuto un’agorà, una scuola, un’accademia, un cenacolo per i suoi intellettuali dai tempi in cui finì la scuola del filosofo Empedocle, cioè duemilaseicento anni fa. Gli artisti agrigentini hanno sempre fatto da soli, spesso sfidando pregiudizi e indifferenze, andandosene via per realizzare i propri progetti, mentre la città li ignorava: fino al giorno in cui un premio Nobel o un riconoscimento ufficiale li ricollocava tra i figliol prodighi da accogliere tra molti festeggiamenti. Ancor meglio se morti.

Il tessuto culturale di Agrigento è frastagliato, discontinuo, a macchia di leopardo. Ci sono esperienze positive, compagnie musicali, artisti isolati, volontarismi virtuosi, singole iniziative coraggiose, ma convivono accanto a macchine mangiasoldi, ad apparati che drenano denaro per avventure velleitarie o addirittura speculative, senza ricaduta per la collettività, tranne il beneficio che portano ai diretti interessati. I migliori spesso si arrendono o vanno altrove, ambasciatori in esilio di una capitale in esilio.

Paradossalmente, la natura duplice di Agrigento – capitale marginale ma diffusa, locale ma globale, ferma all’estremo sud dell’Italia, ma spalmata in tutta Europa, grazie all’emigrazione della sua gente – ne fa una città di provincia, ma non provinciale. Può succedere, ad esempio, che (come cantava Lucio Dalla) Agrigento a una domanda in siciliano ti risponda in tedesco.

L’occasione di essere capitale della cultura nel 2025 può essere una grande occasione. Ma anche un’occasione sprecata. E bisognerà vedere. Naturalmente, in due anni, da qui al 2025, non potranno essere risolti i problemi idrici, quelli urbanistici e non si potrà costruire una ferrovia che porti la gente da Palermo o da Catania in un’ora fino alla stazione di Agrigento. I tempi di percorrenza sono ancora quelli post-unitari, su una rete ferroviaria che risale all’Unità d’Italia, vecchia di un secolo e oltre.

Ma per essere capitale, Agrigento dovrebbe cercare di far tornare – anche per pochi mesi, per qualche settimana – le tante esperienze culturali che gli agrigentini hanno costruito e realizzato in giro per l’Italia e per il mondo. E dovrebbe fare sentire meno soli ed isolati quelli che testardamente sono rimasti in quella provincia, cercando di fare qualcosa di buono in una realtà aspra e desertificata, spesso senza aiuti pubblici, anzi con ostacoli e lacciuoli costruiti dalla burocrazia e dal clientelismo. Insomma, riportare ad Agrigento la capitale in esilio. Almeno per un po’.

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