Fondato a Racalmuto nel 1980

La lunga notte

Il racconto della domenica

Chiara Maria Pia Santamaria

Polonia 1943

Mentre scrivo queste righe la paura di non farcela mi pervade, la paura di non rivedere i miei familiari, di non rivedere gli occhi dolci e pieni di speranza della mia sorellina mentre mi tende la mano paffuta per andare a giocare, di non rivedere le mani grandi e rassicuranti di mio padre.

Mi manca casa mia, sono partito da anni ormai per la mia missione. Sono scout sin da piccolo e non mi sono mai sentito più scout di così in tutta la mia vita. Lo scoutismo mi ha insegnato a rispettare gli altri, ad aiutarli, a combattere per ciò che è giusto.

Già dal settembre 1939 l’esercito tedesco ha sottomesso il mio paese, la Polonia, la nazione che tanto amo e in cui sono cresciuto, distruggendo tutto, deportando le persone che amo. I tedeschi hanno costretto la Polonia a chiudere scuole e università. Quello che ho sempre pensato fosse un diritto, l’istruzione, ora non lo è più; quei professori che con  passione spiegavano le loro materie, che avevano studiato sodo per realizzare il loro sogno di diventare insegnanti, adesso devono pregare per la loro vita; quei genitori che avevano lavorato tutta la vita per permettere ai figli di studiare, per comprare i libri, per dargli una giusta istruzione, adesso devono sperare che ai propri figli non venga puntato un fucile alla fronte; tutto questo per l’unica colpa di credere in un dio diverso, di amare, di essere nati.

Ho 18 anni e ho paura, ho paura per la mia gente, ho paura per il mio futuro, ho paura del futuro.

Noi scout ci siamo divisi in due organizzazioni clandestine: una di scout e una di guide, entrambe tenute in contatto fra loro. Il nostro nome in codice è Schiere Grigie e siamo inquadrati nell’esercito interno polacco. Io faccio parte di un sottogruppo chiamato Parasol, è un gruppo di allenamento, ci hanno educati in scuole di addestramento e adesso è il nostro turno per agire; quasi la metà dei miei capi è stata deportata e per la missione di sabotaggio di domani non posso permettermi di fallire.

Questa notte sarebbe stata lunga. Non era la mia prima missione, dal 1939 avevo partecipato a due missioni, ma questa volta non sarebbe stata la stessa cosa. Questa volta avremmo dovuto caricare veramente i fucili sulle spalle.

Oggi abbiamo preparato le armi, sistemato il nostro accampamento in un bosco più coperto e meno accessibile, l’indomani mattina avremmo dovuto caricare tutto ciò di cui era composto il nostro alloggio su un autocarro e poi salire pure noi.

La sera era serena, avevamo acceso il fuoco per cuocere il pane, avevamo cucinato e dopo avere visto le stelle sui nostri sacchi a pelo, ognuno di noi si era distribuito lungo l’alloggio per scrivere delle lettere a familiari e altri all’organizzazione clandestina delle guide.

Guardando le stelle l’unico mio pensiero era il desiderio delle braccia accoglienti di mia madre in momenti come questi. Era il 1939 quando l’avevo vista l’ultima volta e oggi è il 6 maggio 1943. Mi manca essere bambino, mi manca non sentire quell’enorme peso del ‘’non farcela’’ sulle spalle, mi manca poter fare tutto senza la fretta di ogni giorno, mi manca la semplicità.

Sono anni che non mi fermo a guardare le nuvole con la mia sorellina e non mi emoziono a vedere quelle stelle luminose con il telescopio dalla finestra dei miei amici di scuola.

È stato emozionante vedere quelle stelle, stasera, sul prato con i miei compagni, dimenticandomi quasi della possibilità che i tedeschi ci potessero trovare; è stato più emozionante che qualsiasi altra cosa in vita mia da quel maledetto 1939.

Vedo i miei compagni scrivere come me nascosti nel buio accanto alla loro fiamma di luce proveniente dalla lanterna ad olio. Una leggera brezza di vento ci colpisce tutti come una fraterna carezza mentre i grilli cantano facendoci compagnia. I miei compagni come me sono seduti accovacciati a scrivere e si sente in giro solo quel fresco odore di prato e cenere che ci rasserena. Questa tranquillità emette tutta la gioia che in fondo al cuore abbiamo. In quel piccolo attimo in realtà siamo solo tornati bambini.

Questo magico momento viene interrotto da un assordante boato.  Uno sparo, delle urla, vedo i miei compagni correre verso un nascondiglio raccogliendo gli oggetti più importanti da zaini e tende. Ci nascondiamo in un seminterrato, sperando di non essere trovati dai nazisti. Dalla botola del seminterrato si vedono degli spiragli di luce entrare nel nostro nascondiglio, i miei compagni sono sparpagliati per il seminterrato mentre io sono accovacciato dentro un barile, nascosto dagli occhi di un eventuale assalto.

A un certo punto si odono delle parole, in tedesco.

Ci avevano trovati. Sento dei passi vicini a me mentre alcune parole in tedesco si intensificano per la vicinanza; vedo alcuni dei miei compagni cadere a terra con il viso addolorato, altri invece cercano di resistere. Io provavo solo vergogna per me stesso, la paura mi stava attanagliando e da scout il pensiero di usare un’arma del genere mi aveva totalmente paralizzato la mente, non riuscendo quasi più a farmi pensare. Non stavo aiutando i miei compagni, coloro su cui avevo sempre potuto contare, li stavo lasciando a loro stessi, soli contro la morte. Per un attimo sembrava che i nazisti stessero vincendo, sembrava fossi solo, sembrava essere l’ultima volta che io avrei visto il mondo. I miei compagni erano caduti tutti, ma io no, rimanevamo io e l’ultimo dei miei compagni.

Pensavo alla mia cara mamma, a quanto mi mancasse e a quanto avrei voluto essere insieme a lei, abbracciarla almeno un’ultima volta. parole della mia sorellina.  Era il mio momento, dovevo combattere per le persone che mi volevano bene, per le persone che mi amavano, almeno per rivederle un’ultima volta. Esco dal barile con il fucile, guardo il mio amico, ci stavamo facendo coraggio senza dire una parola; sapevamo quanto fosse importante farcela in quel momento, quanto contasse. Non avevo mai sparato fino ad allora, ero rimasto nascosto, ma in quel momento prendo il fucile in mano e sparo dopo sparo vedo i tedeschi cadere. Rimaneva l’ultimo tedesco, ma poi uno sparo secco colpisce il mio compagno e io sento un dolore lancinante alla gamba destra. Vedo il nazista cercare di sferrare l’ultimo colpo, con il fucile in mano, però lo precedo lasciandolo morente per terra.

Corro, nonostante la mia gamba ferita, ma ormai non sento altro che lacrime e dolore mentre cado a terra.

Polonia, 1978

Sono passati anni ormai dalla fine della guerra, adesso è il 1978. Quella notte persi la gamba e per un periodo anche la mia voglia di combattere, non solo per gli altri ma anche per me stesso. Quella notte non avevo aiutato i miei compagni, li avevo lasciati morire, e proprio io ero sopravvissuto, l’unico fra quelli che non lo meritava. Quando mi dissero della gamba il mondo mi cadde addosso. Da quel giorno stare tra la gente significava essere costantemente con gli occhi addosso. Mi vergognavo di aver lasciato morire i miei amici, mi vergognavo di portare con me il segno di ciò che quella notte avevo fatto. Iniziai a chiedere perché fossi sopravvissuto, perché proprio io, proprio io che non avevo avuto il coraggio di combattere. Eppure con il passare degli anni capii che io ero un testimone, un combattente, il segno della distruzione della guerra. Non mi vergogno, mi sono perdonato per tutto, avevo 18 anni e avevo paura.

Invece adesso, mentre scrivo queste righe, la libertà di vivere mi pervade.

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Racconto che ha ricevuto la menzione speciale alla VI Edizione del Concorso letterario nazionale “Raccontami, o Musa…”, bandito dalla Associazione culturale Musamusìa di Licata, presieduta da Lorenzo Alario, in collaborazione con la testata giornalistica online Malgradotuttoweb. Direttrice artistica del Concorso letterario la prof.ssa Angela Mancuso. Presidente di giuria Raimondo Moncada.

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