Fondato a Racalmuto nel 1980

Grotte, quel Giovedì Santo del 1956

Il vescovo vietò la processione dell’Urna col Cristo morto, tradizione consolidata nel tempo in paese, ritenendo irragionevole anticipare la morte di Cristo. La decisione del presule provocò una vera e propria sommossa popolare. L’arciprete si rifugiò nel campanile della chiesa Madre. Ma alla fine la processione si fece. 

Grotte, campanile chiesa Madre

Serate di nebbie lattiginose, deboli aloni delle lampade che riflettono luce sulle bàsole lucide per l’umidità, silhouette sospettose dai contorni sfumati, che è difficoltoso riconoscere le persone se non dalla voce, latrati di cani in lontananza.

Così al mio paese la primavera ha il suo lento incedere contrastato da un impietoso inverno, dalla natura sovietica, che caparbiamente resiste, al quale ci si opponeva con scarso successo. Ma se trova spiraglio uno sprazzo di stagione, anche stentato e sofferto, per un solo istante, ecco avvertire l’odore dello  zenzero e del miele, trascinati da un soffio speziato, aromatico: tempo di Quaresima mi disse un vecchio che parlava col fuoco.

Ed in quel mentre riemergono storie per divenire narrazioni: quelle che posteriormente diciamo essere stata la verità, una trasfigurazione di ricordi ed emozioni. Ma che ad andarci a fondo, nel riscontrarne le contraddizioni o le deduzioni, muta nel suo essere per divenire artificio, finzione, malinteso, menzogna, rimanendo distante dalla verità radicale: la vita quale criterio della verità, rimanendo la concordanza logica solo criterio della ragione. Meccanismi ariosteschi della quête che spinge alla ricerca, multiforme e centrifuga, di fatti e di oggetti carichi di valore simbolico. Sensazioni dunque, anche per i segni del cielo che si diffondono tra gli uomini tesi a scrutare il segno dei tempi: predizioni.

E quel segno dei tempi che sarebbero mutati si verificò a Grotte in un giorno di Quaresima del 1956, quando in paese giunse il Vescovo coadiutore, originario del novarese, che a conclusione di una riunione con le autorità civili e religiose locali, come riferiva uno dei  parroci dell’epoca, affermò la sospensione delle manifestazioni popolari del giovedì santo, decisione, che per l’epilogo che ne ebbe, si riveló assolutamente incauta. Forse proprio per la diversità di ragionamenti, almeno allora, tra culture geograficamente opposte: contrapposizioni della logica dell’anima e della fede, punti di vista diversi nella prospettiva della Chiesa, che da lì a qualche anno avrebbe iniziato il suo percorso conciliare.

Fu rappresentato al presule che era tradizione inveterata che l’urna con il simulacro del  Cristo morto venisse condotta lentamente, accompagnata da meste marce funebri, in una affollatissima processione, assecondando un suggestivo percorso di stradine tortuose, dalla pieve di San Nicola fino alla cappelletta di un acclive Calvario. E ciò, ad un gruppo di persone, che ne fecero denuncia al vescovo, appariva assolutamente contraddittorio con la verità evangelica, anzi a legger in filigrana tali argomenti, si riscontrava l’eufemismo per dire eretico, blasfemo, scismatico: irragionevolmente i grottesi anticipavano la morte di Cristo!

E, in quella adunanza, secondo la tale versione, non vi fu  alcuna opposizione dei partecipanti, anzi questi rimasero nell’assoluto silenzio, scambiato per consenso o per disinteresse: invece oppositivo, ostile. A ben vedere, proprio per quel metodo tutto siciliano di affermare una cosa per intenderne il contrario, quell’atteggiamento avrebbe dovuto indurre al sospetto, il più terribile, il più temibile: dovendosi, invece, percepire il fragoroso rumore di quel silenzio: una sospensione del respiro e dell’aria prima dello scatenarsi delle forze della natura.

A tale versione, che non mostrava segni per non essere credibile, se ne contrapponeva, almeno nella causa, nella scaturigine, un’altra  rievocata dal sindaco comunista dell’epoca, Salvatore Carlisi, il quale ricordava che egli stesso aveva rappresentato al prelato che la decisione si profilava contraria al sentimento religioso popolare, espresso in quella tradizione, che si perdeva nel tempo.

Secondo il sindaco l’origine della vicenda era da ricercare in questioni di natura politica, che avevano condotto alla deposizione del vecchio arciprete, anche se ormai, per età, giunto al termine delle sue funzioni, per avere celebrato un matrimonio religioso di un professore comunista. Che per quella decisione curiale di divieto per la processione era rimasto fortemente contristato. Sostituendolo, immantinente, è proprio il caso di dire, con altro sacerdote “forestiero”. Così instando, in alto loco, per quella soluzione che, nei fatti, mirava a concentrare l’intera celebrazione all’interno della chiesa, rimanendo, in tal modo, unico dominus, senza rendimento di conto. E così venne civicamente percepito il divieto o in tal senso se ne trasse convincimento: appunto la concordanza della ragione.

All’epoca dei fatti, com’era tradizione, durante la settimana santa l’urna veniva preparata dai fedeli per le processioni, mentre quell’anno, stante la proibizione, rimase nel suo polveroso abbandono.

Conclusasi la messa del giovedì santo, dopo la rappresentazione dell’Ultima Cena secondo un’estrapolazione dal testo del mortorio dell’Orioles, le persone, di ogni fede politica, di ogni credo religioso, cominciarono ad affollare la Matrice non solo per visitare i sepolcri ma a richiedere che si desse luogo alla processione.

Fedeli che si tramutarono in folla rumoreggiante, esasperata, insolente, che poco sarebbe mancato a passar alle vie di fatto, che in un momento di follia collettiva indirizzò la propria collera sugli arredi, che finirono affastellati e capovolti, in un turbinio di imprecazioni.

Folla divenuta supplicante verso il sindaco, che ben capì che la vicenda era diventata esplosiva. E lo capì anche l’arciprete che, sentendosi braccato, gli sembrò prudente riparare sulla torre campanaria, dileguandosi in un’aerostatico riparato ricovero. Ed il sindaco, nella sua autorità e necessità di governo, diede disposizioni ai carabinieri di recuperare dall’arciprete le chiavi della chiesetta, che lanciò dalla balaustra del suo scomodo rifugio.

Ed ottenute le chiavi, d’autorità la folla entrò nella piccola chiesa di San Nicola mostrando ora tutta la pietà del religioso sentire per Cristo nella sua solitudine umana, che già nel momento della cattura era già nella morte: forse era questo il senso che era sfuggito a chi manifestava opposizione. E fu un momento di estrema commozione il preparare il tutto in una delicata concitazione di amorevoli carezze ed approntare nell’immediato la processione dell’Uomo.

Ed ora in queste sere di un’innocente primavera, quando ancora è meno che mite il vento di ponente che accarezza i volti e porta con sé i primi odori dolciastri, moreschi e speziati del cimolo e del bàlico, é istintivo, quasi dettato dalla natura stessa, volgere l’immediato pensiero alle scene della settimana di passione, che fin da bambini, si sono impressionate nella memoria.

Venerando Bellomo (Sempre con noi)

Ed andando a ritroso negli anni, in un tempo passato privo di orizzonte cronologico, una sorta di sempiterno presente, si materializzano i volti e i luoghi, che si affermano e si completano in un’unità imprescindibile. E come in un incantamento, a quegli odori, si uniscono e si odono, a mano a mano più nitide, le prime note di un’antica e straziante melodia, che si srotola nel labirinto della scala araba, quasi a finire, per riprendere, quel canto ascendente, dal  rincalzare di un’altra voce, ancor più potente, fino a staccare, d’un tratto, in una cadenza corale che, con solenne gravità, dà profondità armonica che  avvolge, ora, i vicoli dalle bàsole disconnesse e poi ritorcersi, insinuandosi, come a fasciarli, intorno ai cipressi che modellano i fianchi di quel colle, che attende coronato dalle alte vampe dei roghi dei bivacchi, dove avvenne lo strazio dell’Uomo.

E quel canto diventa ancor più intenso e si materializza nei visi rugosi ed antichi di quegli uomini che, a crocchia, tra file di fiaccole gocciolanti cera liquefatta, rievocano, chissà da quanto tempo ormai, lo strazio di quella Madre, che mossa da un terribile presagio, nella notte dell’inganno, cerca vanamente, nel sopravvento della  sua umana carnalità, di fermare quel funesto destino che al tempo stesso, per mistero di fede, è disegno divino.

E quelle voci lancinanti, si mescolano e spesso sovrastano i tonfi tristi dei tamburi e il deflagrare dei cimbali delle marce dal ritmo singhiozzante  e struggente, che ognuno conosce a memoria. Ed è ora tutto avvolto dall’odore mieloso dello zucchero filato. Quei vecchi, con gli occhi tristi da bambino, ne hanno viste di madri, accasciarsi al suolo, straziate da un immenso lancinante dolore, come Maria Bergamas dinanzi alla fila delle bare degli ignoti militi, di donne, di spose, quasi bambine, fasciate nel velo del lutto, contorte negli spasmi del dolore, piangere il corpo crocifisso nei pali del filo spinato del loro figlio soldato sulle pendici del Carso o stringere tra le mani un piastrina ritrovata tra le sabbie di El Alamein o in un campo di girasoli della Russia.

E i muri incastonati da cristalli di gesso e da bottoni di muschio, balenanti alla luce smorzata delle lampade a pera, abbracciano in un corteggio quella scena.

Da magradotuttoweb aprile 2021

 

 

 

 

 

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Laurea magistrale in "Letterature moderne comparate e postcoloniali" all'Università di Bologna