Fondato a Racalmuto nel 1980

Il pastore tedesco

Racconti. Pascolava le sue pecore in un luogo di felicità, nel cuore della Sicilia. Si chiamava Frederich. Prima di avere quel gregge viveva in Germania...

Raimondo Moncada

Quando uscivo da casa alle otto e dieci del mattino, sparato come un missile, trovavo sempre puntuale davanti a me un muro di pecore. Almeno duecento, tutte belanti, con quei campanacci al collo che ti entrano nelle orecchie a martello pneumatico. Le pecore non volevano sentirne di spostarsi. Mi guardavano e ruminavano. Per far capire a quegli ovinidi che dovevo arrivare in ufficio, premevo sul pedale dell’acceleratore. Con la frizione abbassata, portavo il motore della mia vecchia Cinquecento al massimo dei giri. Lo sbiellamento avrebbe dovuto spaventarle. Macché! Le pecore non si sarebbero scansate neanche se i cilindri mi fossero esplosi.

Davo pugni al clacson. Alle trombe dell’auto facevo urlare la mia ira. Ma loro, le pecore, stavano ancora lì, a guardarmi e a ruminare, schiacciandomi alle fiancate. A questo punto si girava l’uomo col bastone che camminava avanti, al di là della marea ovina. Un cenno con la testa e il suo cane, una femmina dal pelo bianco, cominciava ad abbaiare correndo verso di me. Il gregge si spaccava in due ed io passavo. Osservavo le pecore che si arrampicavano una sull’altra, mentre io ruminavo una gomma mordendomi le labbra.

Appena emergevo, aprivo il finestrino e ringraziavo il pastore. Lui mi sorrideva, alzando quel lungo bastone d’ulivo su cui reggeva il peso dell’età. Poteva avere una settantina d’anni. Indossava sempre la stessa giacca e lo stesso pantalone, con una borsa di cuoio a tracolla. Un bel vestito, nonostante le tante toppe cucite nel tempo.

Quando mi scontravo col gregge, arrivavo in ufficio dieci minuti dopo l’orario consentito.
– Ma perché non ti alzi mezz’ora prima? Perché? Perché? Perché?
Il rimprovero del capo mi faceva sentire un bambino. Mi giustificavo balbettando. A volte dicevo che, porca miseria, non mi era suonata la sveglia, altre volte che ero stato bloccato da un incidente. La scusa che usavo spesso era la mancanza di parcheggio. Di tanto in tanto ci infilavo il gregge. Mostravo pure il video girato col cellulare, con in primo piano i musi ruminanti delle pecore che mi sputavano i vetri della Cinquecento. Il ritardo lo pagavo.

Lavoravo in una ditta di servizi informatici, anche se non ho mai capito nulla di computer. Se mi avessero chiesto un parere sui transistor, avrei risposto che non ero contrario ai matrimoni omosessuali. Nel colloquio di lavoro, avevo detto che io ed i computer eravamo fatti della stessa carne e parlavamo la stessa lingua. Ottenuto il posto, dall’assistenza tecnica mi sono fatto spostare al settore amministrativo grazie a un certificato medico con cui attestavo un’allergia ai componenti elettronici.

Quando entravo in ufficio con il mio comodo, venivo aggregato alla squadra recupero crediti. Avrei rinunciato alle ferie pur di non stare con quel branco di iene. Così come avrei pure pagato per non avere a che fare con i clienti morosi.
– Mi dia un altro mese. La supplico.

Talune volte si buttavano a terra e piangevano. Ti dicevano che non sapevano come dare da mangiare ai figli. Alcuni ti chiedevano pure soldi.

C’era chi ti diceva la verità. Ma c’era chi approfittava della tua bontà d’animo. Io dovevo essere bravo a non piangere assieme a loro e cercare di recuperare il recuperabile.

Ogni giorno entravo in ufficio quasi sempre alle otto e quaranta, per uscirne dieci ore dopo. Solo una pausa di mezz’ora per un panino con panelle o una brioche con granita di limone. Arrivavo a casa alle sette di sera che non volevo più sentire e vedere nessuno. Mi buttavo sul divano, accendevo la tv e cominciavo a zappare col telecomando. Mia moglie Antonella e i miei tre figli, Giuseppe, Calogero e Carmela, mi chiamavano di continuo per cenare.

– Il mangiare ora lo puoi dare ai cani.

Quando mi alzavo dal divano, trovavo la cucina vuota. I ragazzi erano andati in camera loro a guardare ognuno il proprio televisore. Antonella mi aspettava a letto, tutta profumata, mentre si appassionava al solito film romantico. Mia moglie mi sentiva parlare solo la mattina, quando le corde vocali cominciavano a riemettere i primi suoni. La voce ritrovata mi serviva per imprecare contro me stesso che mi alzavo alle otto e non alle sette e mezzo. Dopo lo sgolamento delle tre sveglie, rimanevo incollato a letto per non perdere l’ultimo sogno.

Una sera d’agosto incontrai il gregge al ritorno dal lavoro. Non vedevo l’ora di farmi una doccia ghiacciata. Nel pomeriggio ero andato a casa di un cliente che non pagava la mia ditta da tre anni. Si era fatto trovare sopra il tavolo della cucina con un cappio al collo. E gridava, gridava, richiamando attorno a me un intero vicinato.

– Si deve vergognare. Non vede che lo sta uccidendo?

Me ne andai da quella casa senza dire nulla, a testa bassa. Litigai con il capufficio e con i colleghi. Avevo messo in cattiva luce l’ufficio iene.

– Sei un buono a nulla!

Quel giorno, davanti al gregge, spensi la Cinquecento. L’auto si muoveva da sola in una lieve discesa. Mi misi ad andare a passo di pecora. Zittii la radio. Sentivo solo i campanacci, i belati e il suono dell’erba ruminata. Guardavo uno a uno quegli animali e mi misi a osservare anche l’uomo col bastone. Aveva la camicia aperta. Al petto gli notai una collanina d’oro, femminile, con una fede messa a pendente. Il cane, che gli stava sempre al fianco, aveva un gran pancione. Eravamo a pochi passi dall’ovile. Il gregge, però, proseguì. Scalò il promontorio, al di là della mia villetta. Decisi di parcheggiare l’auto e di seguire le pecore a piedi. Più salivo e più sentivo il mare, nel naso e nelle orecchie. Lo sciabordio delle onde si intonava al suono dei campanacci. Arrivato in cima, l’uomo col bastone si sedette su un grosso masso, sotto un albero d’arancio. Uscì dalla borsa di cuoio una tovaglia e la sistemò bene a terra. Prese del pane, un barattolo di olive, un pezzo di formaggio, una bottiglia di vino, due bicchieri di vetro.

Il cane gli si accucciò ai piedi guardandolo negli occhi. Il gregge si dispose tutt’intorno. L’uomo col bastone si girò d’improvviso verso di me. Ero mezzo nascosto dietro un tronco d’ulivo.

– Si avvicini. Lo spettacolo è gratuito. Avanti, che dura poco.

Era la prima volta che mi rivolgeva la parola. Proprio in quel momento mi squillò il cellulare. Sul display mi apparve il nome di mia moglie. Decisi di non rispondere e di spegnere. Raggiunsi pure io la vetta. Davanti a me quel mare di Ribera di cui l’agenzia immobiliare dieci anni prima mi aveva a lungo parlato per convincermi ad acquistare la casa. Mai vista tanta acqua e tanto cielo. Mi sentivo come sospeso in aria. Giù c’erano ancora bagnanti. Il sole colorava d’oro i loro volti. C’era chi chiudeva gli occhi, chi faceva foto e riprese col cellulare.

– Forza, si sieda.

Presi posto sopra un altro masso, accanto a quell’uomo incontrato tante volte nella fretta del mattino. Cominciai a mangiare. Lentamente. Mangiavo e guardavo davanti a me quello schermo di bellezza mai goduta. Il viso dell’uomo col bastone si colorava di indaco, di violetto, di rosso, pennellate di un sole che si congedava srotolando sul mare un tappeto di specchi accecanti. Si immergeva sull’orizzonte e l’acqua si rilassava. Sembrò per un attimo galleggiare. Poi sprofondò. Rimase in cielo un timido spicchio di luna, a fare da richiamo alle stelle della notte. Solo al tramonto ci alzammo e, in silenzio, lasciammo quel luogo di felicità senza parole. L’uomo col bastone raggiunse l’ovile e mise a dormire le sue pecore. Io rientrai a casa dove ad attendermi c’era Antonella col bastone della scopa.

Ogni giorno non vedevo l’ora di arrivare all’appuntamento e di godere, anche di sfuggita, in auto, lungo la strada che mi portava in ufficio, le meraviglie della mia terra: la solennità degli ulivi secolari, l’eleganza dei mandorli in fiore, la morbidezza dei fichi d’india. E poi i capperi che crescevano ai bordi della strada, a ricordarmi nonna Carmela quando veniva a casa dei miei e usciva per perdersi in campagna e ritornare con le tasche del suo perenne vestito nero colme di gustosa verdura. Ovunque distese di alberi d’arancio. Il loro profumo mi spingeva da Ribera a Sciacca, dove il mare onnipresente mi collegava al mio mondo.

Ora, quello sul promontorio, è diventato un appuntamento fisso. Anche dopo la morte dell’uomo col bastone. Ci vado due volte al giorno, mattina e pomeriggio. Con me ci sono le sue pecore. Il gregge è mio. Me lo hanno venduto suoi parenti. Ho saputo da loro che l’uomo col bastone si chiamava Friederich e che era tedesco. Prima di avere quel gregge viveva in Germania e insegnava Lettere. Un giorno è sceso per una vacanza in Sicilia, si è innamorato ed è rimasto. Si è sposato con una ragazza di Ribera. Ninetta si chiamava. È morta al rientro dal viaggio di nozze, uccisa dal cancro. Il vestito che Friederich indossava era quello del matrimonio.

Dopo la sua scomparsa, faccio il pastore a tempo pieno. La mattina mi alzo prima delle sveglie, all’alba, ed esco con le mie pecore. È con me Nuvoletta, figlia di Nuvola, il cane di Frederich. Nuvoletta ogni sera mangia e beve con me e la mia famiglia sul promontorio, sotto l’arancio che Friederich ha piantato il giorno della morte della sua Ninetta, nel luogo dove si sono conosciuti.

Da “I Racconti di Malgrado tutto”

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