Fondato a Racalmuto nel 1980

“Lo stupore di Sisì”

La recensione di Vincenzo Campo al romanzo di Salvatore Miseria. Edizioni Nemapress.

Una premessa: Lo stupore di Sisì, per molti versi, per tante ragioni e in buona misura è anche lo stupore mio, o se vogliamo di Vivì, un bambino, un ragazzino, un uomo che in qualche modo somiglia a me. Ma poi ci arrivo…

Chi è Sisì. Ora ve lo dico. Ma prima voglio dirvi chi è Salvatore Miseria, quello che lo ha inventato, o se lo si preferisce, che lo ha creato; quello che ha creato Sisì, quello che necessariamente è una sorta di prius rispetto a Sisì.

Salvatore Miseria è un medico. È nato a Raffadali nei primissimi anni cinquanta e ha svolto la sua vita per un paio di decenni a Raffadali e, per necessità di cose, ad Agrigento. Ha studiato al liceo classico e dopo la maturità se ne è andato in Continente, come allora si diceva e come ora non si dice più, per l’università, per studiare. Ha studiato medicina a Padova e poi, come tanti, purtroppo tanti, non è più tornato, se non sporadicamente, occasionalmente per brevi periodi e per lo più in vacanza.

Ha fatto il medico, diciamo meglio: è stato medico – che c’è una bella differenza fra il “fare” qualcosa ed esserlo, e lui lo è stato; medico oncologo e in particolare si è occupato della comunicazione con i pazienti e con i familiari dei pazienti.

Profondamente siciliano, con tutto quello di bene e di male che questo comporta, ha esportato un po’ di Sicilia nel profondo nord prima – fra Padova e Verona – e nel medio nord dopo, ad Ancona.

Trovo che noi siciliani siamo un po’ mimetici, cerchiamo di essere dei piccoli camaleonti che pur orgogliosi della nostra sicilianità, fuori dal nostro ambiente d’origine, cerchiamo di confonderci nel mondo circostante.

Non so se per una sorta di complesso d’inferiorità o magari per contrastare l’antipatia che sappiamo esserci in molti e forse troppi settentrionali nei nostri confronti, o non so per quale altra ragione, ma è quasi certo che per i più di noi, dopo cinque giorni che siamo a Bologna, le pietre diventano sassi, anzi sciassci, e con due esse assolutamente sconosciute alla nostra fonetica e inusuali alle nostre orecchie.

Salvatore, che era ed è Totò per tutti, per il mondo, invece no. Se fosse finito a Bologna le pietre sarebbero rimaste pietre e le esse non sarebbero mai scivolate.

Lui, là dove è finito, a Padova, a Verona e a d Ancona c’è andato con la sua cadenza siciliana e anzi raffadalese e con questa stessa cadenza è sempre rimasto, e piuttosto (ché sappiano i lombardi “piuttosto” è avversativa e non disgiuntiva), al contrario ha esportato lì dove è stato la sua lingua madre che è il siciliano; esclamazioni, interiezioni e frasi intere in siciliano e chi doveva o voleva capirlo ha imparato a farlo.

Io lo ho conosciuto quando entrambi avevamo 12 anni e frequentavamo la terza A della Scuola media Pirandello – a quel tempo ad Agrigento c’erano solo due scuole medie, la nostra, la Pirandello appunto, e la Pascoli. A Raffadali nemmeno una. Manco per sbaglio. E ancora era fortunato, lui, perché c’era chi veniva da Casteltermini come Michele Pellitteri.

Ricordo perfettamente quando arrivò, perché compagno nuovo, arrivò in una classe che era già formata e che fin dalla prima media si ricostituiva, pressoché uguale ogni anno.

Un po’ come successe al suo Sisì al capitolo 11 del suo romanzo, che dopo un peregrinare per le terze classi della Pirandello, ordinatamente dalla “G”, a ritroso passando per la “F”, la “D” – dalla “E” e dalla “C” immagino di no perché erano esclusivamente femminili – arrivò alla “A” che, non so dire se fu per lui un bene o un male, finalmente lo accolse.

Digressione: dicevo in premessa che in buona misura lo stupore di Sisì è anche il mio, che potrei essere Vivì invece di Vincenzo e, per esempio, un po’ ho anche vissuto l’esperienza dell’inserimento in una classe già formata; ma non dalla parte del nuovo inserito ma dalla parte di chi compone già la classe.

Ricordo perfettamente che ad inizio d’anno, ad un certo punto, portato da un bidello, arrivò un nuovo compagno che però si chiamava Miseria e non Carestia; gli fu assegnato un banco dietro al mio e piangeva d’un pianto silenzioso; mi girai e cercando d’essere consolatorio, ma sbagliando, gli chiesi perché piangesse; in perfetto siciliano e in maniera direi molto colorita m’invitò a farmi i fatti miei.

Io ero mite e parlavo in italiano,

Che dovevo fare? Mi girai verso la cattedra e mi feci i fatti miei.

Analogamente a quanto successe alla 3^ A di Sisì, anche la 3^ A mia e di Totò Miseria, salvo qualche defezione e qualche aggiunta, divenne la IV^ A del Liceo Ginnasio Empedocle e così rimase fino alla 3^ liceo quando poi per necessità di cose si dissolse e ognuno dei suoi componenti se n’andò per la sua strada e per i suoi studi.

Io a Palermo, Totò a Padova, Sisì non so dove.

Per la verità per tutto il corso di studi non ci frequentammo, io e Totò. Di Sisì, ovviamente, non sapevo nulla, non lo conoscevo e mai l’ho conosciuto finché non ho letto il romanzo di Totò.

Lui viveva a Raffadali e io ad Agrigento, quando veniva, che veniva per lunghi periodi, lui stava con altri nostri compagni, soprattutto un mio cugino e poi anche un altro.

Chi avrà il piacere di leggere il romanzo di Totò saprà della passione fortissima di Sisì per i mezzi meccanici su pneumatici, automobili, motociclette, corriere ed autocarri.

Totò aveva la Vespa e il mio cugino prima la Vespa pure lui e, a 16 anni, una bellissima Gilera 124 5V – era rosso amaranto con una evidente cromatura – e l’altro compagno una potentissima Fiat 500.

Ora non so dire se più per l’apprensione o più per la scarsa propensione alla spesa della mia mamma, io invece ero appiedato. Svolgevamo vite diverse.

L’ho incontrato tanti e tanti anni dopo che si dissolse quella 3^ A dell’Empedocle, l’ho veramente conosciuto e ho ritrovato, cresciuto, quel ragazzino così pieno d’umanità che era arrivato quella mattina d’inizio d’anno alla 3^ della Pirandello.

E ora Sisì.

La prima domanda che uno si fa e che non dovrebbe assolutamente porsi è: ma Sisì Carestia è Totò Miseria? C’è assonanza tra i cognomi…

Qualcuno una volta chiese a Camilleri, ad Andrea Camilleri, se fosse lui stesso il personaggio di uno suo romanzo o di suoi romanzi, ora non ricordo. Aggiunse, chi poneva la domanda, che lui ci vedeva molto di Camilleri nel personaggio e Camilleri gli rispose che forse era vero, ma certo era che lui, l’interlocutore, aveva molta più fantasia di lui, romanziere.

Certo che no.

Sisì è un personaggio nato dalla fantasia di Totò Miseria che in quanto fantasia d’uomo, voglio dire di essere umano, non è illimitata, ché doti illimitate ha solo l’Eterno e l’Onnipotente.

Voglio dire: quand’anche Totò Miseria, raccontandoci di Sisì, avesse voluto raccontarci di sé ciò avrebbe fatto riferendoci ciò che ricorda, filtrato dall’esperienza del tempo in cui ha vissuto ciò che racconta e, diciamo così, inquinato dall’esperienza di ciò che ha vissuto dopo e da quanto altri gli hanno detto e raccontato. Per quanto fedele avesse voluto essere il suo dire di se stesso, necessariamente, per forza di cose, sarebbe stato diverso dal Sisì del suo romanzo.

A cominciare dall’incipit:Era una domenica di settembre quando Sisì bussò al mondo; la porta gliela aprì Pasqualina, la levatrice condotta, che assistette al parto in casa dal momento che, in quel paesino della Sicilia di quegli anni, era del tutto impensabile nascere altrove che a casa”.

Mettiamo pure che qui Totò, raccontandoci del nascere di Sisì, avesse voluto raccontarci del suo nascere.

Ma che ne sa Totò, per sua diretta conoscenza, del suo nascere – così come che sa ciascuno di noi del suo nascere – se non quello che gli ha raccontato la sua mamma, la mammana Pasqualina o la zia Erminia o lo zio Raffaele? Che ne sa, per sua conoscenza diretta, – come che ne sa ognuno di noi per sua conoscenza diretta – che in quegli anni era del tutto impensabile nascere altrove che a casa?

Anch’io sono nato a casa dove abitava mia madre, in via Bac Bac, e so anche, e direi che ne sono certo, che sono nato nella stanza da pranzo e sul tavolo dove si pranzava e dove si cenava prima e dopo che io nascessi. Ma di questo non ho memoria. Me l’hanno detto, me l’hanno raccontato. E se per un errore di memoria o anche ad arte m’è stata raccontata una cosa in tutto e in parte non vera io racconto come accaduta una cosa che in realtà non è vera…

E così io so – credo di sapere – della mia nascita e nulla so invece della nascita delle mie sorelle, la più grande delle quali è nata che avevo 12 anni.

So che è nata in casa, perché ricorderei un eventuale ricovero di mia madre, ma nulla so del resto perché quando s’avvicinò il momento di nascere mi portarono a casa di mia zia Carmen in via Demetra dove stetti coi miei cugini Ernesta e Salvatore, e sicuramente di tutto parlammo ma non di nascite. O almeno così ricordo, ché se poi invece parlammo della nascita che stava avvenendo come è pure possibile, ora io vi racconterei una storia non vera, di fantasia; perché nel ricordare prima e nel riferire il ricordo dopo, non può non esserci fantasia; perché la nostra memoria è selettiva; la nostra attenzione – come meglio di me vi spiegherebbe mio figlio Enrico che si occupa professionalmente di attenzione e dei problemi dell’attenzione – è assolutamente selettiva: vede cose che altri non vedono, avverte odori che altri non sentono, sente suoni che altri non sentono. E poi la nostra memoria ci fa ricordare solo ciò che la nostra mente ritiene rilevante e nel modo che ritiene rilevante, perché se c’è memoria, se c’è il ricordo, correlativamente c’è il dimenticato.

Quante e tante cose ci succedono vivendo, ma solo alcune “registriamo” e solo alcune di queste poi ricordiamo e nel modo in cui vogliamo ricordarle.

Un esempio.

Totò Miseria nel raccontarci di Sisì, ci dice di quanta importanza il suo personaggio desse al mondo degli odori; mondo che a me è del tutto indifferente e in buona misura anche sconosciuto.

Ci dice che Sisì, bambino e ragazzino nato come me nei primissimi anni cinquanta e che ha conosciuto la stessa campagna che ho conosciuto io – la sua al Modaccamo la mia a Sant’Anna, ma sostanzialmente la stessa, fatta dello stesso frumento che era Capeiti o Rossella, e di fave, di mandorli e di carrubi – avvertiva negli assolati campi di grano mietuto, nelle stoppie, l’odore della liquirizia.

Ma questo è folle, direi io che liquirizia non sentivo o non ricordo d’averne sentita.

Le stesse stoppie a me non odoravano di liquirizia e se di liquirizia odoravano, non lo ricordo affatto.

Non l’ho registrato, e se l’ho registrato l’ho poi cancellato.

Un altro esempio, e con questi miei esempi vi parlo del romanzo e del perché vi invito a leggerlo.

Racconta sempre Totò, e noi gli crediamo perché della sua buona fede non dubitiamo, che agli esami di terza media, sistemarono i banchi in un corridoio della scuola e posero su un tavolino un’anfora finto-greca che i ragazzi, e con loro Sisì, avrebbero dovuto disegnare.

Io lì c’ero. O se volete c’era Vivì che è il mio ricordo di me stesso.

Ricordo il vaso, non ricordo affatto il corridoio e soprattutto non ricordo per niente la cosa più importante che è accaduta a Sisì: che maldestramente fece cadere a terra il vaso che andò in frantumi; e ancora non ricordo neppure della conseguente filippica che fece la professoressa sulla scarsa attenzione che per il disegno avevano quelli “bravi” – tra virgolette – che prendevano 8 e 9 di italiano e di latino, come Sisì e come Vivì. Quella stessa professoressa, per inciso, l’anno precedente, in 2^ media, mi aveva rimandato a settembre di disegno…

Direbbe Vivì che apprende da questo racconto di quello che gli successe agli esami di disegno di terza media e che senza il racconto di Totò non avrebbe mai saputo niente e non avrebbe neanche mai capito perché era antipatico alla professoressa Nicosia, né più e né meno come lo era stato il suo compagno Carestia.

Allora, Sisì non è Totò, come Vivì non sono io. E se ve lo dico io che non sono Vivì, dovete credermi: che ragione avrei, io che non ho scritto nessun romanzo e che – non temete – non ho in animo di scriverne a dirvi che Vivì non è Vincenzo?

Totò, e scusate se continuo a chiamarlo così perché Salvatore non l’ho mai chiamato e comunque mi sa di anagrafe, di elenco di alunni o di caserma – ci racconta di Sisì e col raccontare di lui ci racconta della Sicilia degli anni Cinquanta e Sessanta e in particolare di Raffadali; e ci racconta dello stupore delle scoperte di Sisì; e in questo senso, come dicevo dapprincipio, lo stupore di Sisì, in buona misura è lo stupore mio.

Perché anch’io come lui sono nato nei primi anni cinquanta e anch’io come lui ho vissuto buona parte della mia vita nella stessa Raffadali contadina di quel tempo.

La stessa identica realtà seppure filtrata da esperienze e caratteri diversi, quello di Sisì e il mio.

E così se i contorni, i dettagli, gli odori e le sfumature sono diversi, tuttavia la realtà è quella.

Quella raccontata da Totò direi con tratti a matita – che, per quanto, apprendo, Sisì non sarebbe stato capace perché poco portato per il disegno a mano libera -, a bozzetti, quadretti in bianco e nero ma pieni di sfumature e di chiaro scuri.

Con questo romanzo chi ha vissuto quel tempo trova il piacere di riviverlo ricordando quello che di buono e di bello c’era e chi non l’ha vissuto troverà il piacere di scoprire, il gusto di stupirsi di fronte a cose che sembrano assolutamente impossibili o che assegnerebbe al trapassato remoto quando appartengono al più recente passato prossimo.

Chi non immagina saprà che si viveva col lume a petrolio o con la lampada ad acetilene, “a cetilena”, dicevano i nostri contadini, una cosa miracolosa che disciolta in acqua liberava un gas che poi alimentava apposite lampade; e chi l’ha vissuto ricorderà come apparissero più splendenti d’ora le stesse stelle dello stesso cielo e la stessa grande luna che rischiarava le buie notti delle campagne di Sicilia; che sono le stesse, ma che ora sono punteggiate e più che punteggiate dalle mille e mille lampade elettriche più numerose e più luminose delle stelle del cielo e che, paradossalmente, per troppa luce non ce le fanno più vedere.

Nel leggere questi bozzetti qualcuno, nel mondo d’oggi che è quello del telefono personale e più che portatile, ricorderà e qualche altro invece scoprirà dell’esistenza del posto telefonico pubblico, degli spinotti che l’operatore infilava a coppie in quadro che aveva davanti per mettere in comunicazione due telefoni: quello del posto telefonico pubblico e quello del fortunato che disponeva di un apparecchio proprio.

Totò mi dice che lo gestiva Donciciuponti, un tale maro-magro e infilato dentro abbondanti braghe rette da bretelle e Vivì ricorda un ampio locale buio pieno di scaffali di legno assolutamente vuoti, pieni di niente, e un posto telefonico gestito da due donnine. Misteri della memoria e del ricordo.

E questi sono solo esempi.

Tanti e tanti sono i quadri che Sisì vive e Totò racconta e davvero tanti sono i ricordi nostri, di chi è coetaneo di Sisì e tante le scoperte di chi non ha vissuto la Sicilia contadina di quegli anni.

A voi il piacere della scoperta

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