Fondato a Racalmuto nel 1980

Fotografie, parole, storie e bellezza vivono insieme

Uno scambio di sguardi. L’editoriale di Franco Carlisi su “Gente di Fotografia”

La casa era in affitto, in fondo alla falesia, fra due argini di canne sparute. Nei giorni di libeccio il mare inondava le stanze. Sulle pareti, la muffa seguiva misteriosi percorsi artistici come un ispirato Mark Rothko. Dai colori marci dell’intonaco si stagliavano, appese alle loro cornici, sedici fotografie degli inizi del Novecento. E su tutto si proiettava, a sera, la corsa delle nuvole in fuga verso l’angolo piatto dell’orizzonte.

Appena sotto la veranda, sugli scogli illuminati dalla sola Via Lattea, il mare ostentava un solfeggio anarchico, una maniacale e reiterata tensione stilistica in sintonia col mio formidabile cuore di bambino.

Penso di avere un debito verso quella scogliera dell’infanzia. Lo penso in questo tempo di naufragi di umanità e di intelligenza. In bilico nel buio, con l’acqua fino al collo, dissennatamente, combattevo il senso del limite, del confine. Imparavo la fragilità, la vertigine di scomparire e subito dopo riemergere, l’origine di un mistero che è morte e rinascita, bagliore e tenebra, acqua e roccia: la materia inesauribile dell’universo.

Le fotografie appese alle pareti imponevano invece un contegno timoroso, come in una casa fatta di sguardi. Il volto dell’altro mi riguarda afferma Emmanuel Lévinas, mi riguarda nei due sensi della parola “riguardare”: è qualcosa che ha a che fare con la mia vita – il mio sguardo è una risposta per lo sguardo dell’altro – ma anche nell’altra accezione del termine francese “regarder”, guardare un altro in faccia. L’altro si rivela attraverso il volto e il volto dell’altro mi interroga. Pone una domanda per ricevere in cambio un’altra domanda. Un’interrogazione per capire chi sei attraverso la relazione con lo sguardo dell’altro. Per fugare il dubbio di te, della tua capacità di comprenderti. Per appagare il bisogno di un riscontro fuori di te. Per dirla, inopportunamente forse, con Lévinas, in questo caso, infatti, gli unici sguardi in ballo erano il mio e quello fisso delle persone ritratte, appese alle pareti della casa al mare.

Non c’era scambio. Il mio sguardo rimbalzava sulla superfice della carta fotografica. Lo sguardo dell’altro non era vivo: era lo sguardo di una fotografia. L’unico scambio possibile avveniva nella mia mente.

È vero, scrutavo quelle fotografie come generatrici di domande. Il più delle volte non trovavo risposte. Ma il bello era proprio questo: lasciare l’interrogativo a lampeggiare mentre lavoravo di fantasia.

Sicuramente è una bizzarria del tempo quella che ci autorizza a definire gli altri, dopo la loro fine. I loro segreti, le loro tristezze, le allegrie, i rimpianti, i sogni, spesso rimasti tali. Riuscire nell’impossibilità di decifrare le persone attraverso quel poco di loro che una fotografia ha trattenuto. In altre parole, raccontarle con continui mutamenti di senso, esattamente come cambia continuamente il senso di tutto ciò che ci riguarda. Sì, perché pensavo che tutte quelle persone ritratte – quella ragazza alla finestra, persa dietro a un pensiero che non mutava, quell’uomo, vigile e fosco, con un’aria di cocciutaggine irredimibile, quella donna arresa alla gloria di stare in cima a un albero e tutti gli altri – chissà per quale stranezza del destino, mi riguardassero, fossero nient’altro che una rivelazione esemplificativa di me.

Ogni quadro aveva alla base, all’interno della cornice, il cascame di un fiore e brevi scritte spesso illeggibili: un singhiozzo di parole. Da lì, forse, deriva la mia convinzione che fotografie, parole, storie e bellezza vivano insieme.

In una di queste didascalie era riportato Maricetta a mare. Nella foto, Maricetta – bellissima – indossa un abito bianco, sullo sfondo un paesaggio marino. L’immagine tradisce un certo amore per il pittoresco da parte del fotografo da far pensare a un epigono di Monet con la macchina fotografica.

Tuttavia, la fotografia conteneva una forza che non aveva nulla a che fare col pittoresco. L’ombrellino immancabile, aperto su Maricetta, sviava il sole e rastrellava l’ombra come a tutelare un tiepido grembo di intimità. Tra le chiazze di luce che filtravano si intravvedeva un calore nello sguardo e negli occhi della ragazza, una sete di altrove.

Il sorriso era trattenuto e sembrava esprimere una sorta di timidezza o forse un’innocenza, un orgoglio, se non addirittura una forma di pietà.

Non sapevo nulla di Maricetta. Non saprei come spiegarlo. Attraverso quella fotografia mi è sembrato di perseguire una sorta di educazione sentimentale, partendo da me. A volte siamo in grado di comprendere le cose in un altro modo. Con l’istinto, magari. Senza sovrastrutture.

Credo di aver provato per Maricetta un amore non ricambiato. Ovviamente. Il suo ritratto era per me un mondo sospeso tra perdizione e innocenza dove andare a vivere per un po’. Dove rimanere incagliato alla bellezza in silenzio, stordito col sorriso nell’animo.

Quelle cornici sbilenche, quelle immagini sbiadite – ma per me vivide e commoventi – non erano altro che un mezzo per ricordare ciò che non avevo vissuto.

L’invenzione dei ricordi è una forma di incantamento, un conforto, una sorta di malinconia che restituisce consapevolezza di noi stessi. Queste invenzioni mi entravano negli occhi come fossero realtà, potenti e in grado di trasformarmi. E occupavano ogni spazio dell’immaginazione. Mi consentivano di stare faccia a faccia con la materia prima dei sogni, di guardarmi dentro e capire che genere di uomo stesse crescendo dentro di me. Tuttavia, l’amor proprio è innato e connaturato e inevitabilmente avevo realizzato una costruzione magnifica di me stesso, di cui ho sentito subito l’esigenza di liberarmi. Dopo l’estate non ci ho più pensato e, da allora, non sono più tornato nella casa al mare.

Ci sono attitudini che ritornano tuttavia, anche quando non le frequentiamo da tempo. È come per l’amore: a poco a poco ritorna, spesso in ritardo. Così ci sono giorni di congedo dal mondo in cui vado in giro senza la macchina fotografica a scattare immagini mentali.

Franco Carlisi

Sin da quando ho compreso che tutte le mie inclinazioni vertevano in un sol punto – la fotografia – e mi consentivano di comunicare la mia visione dell’esistenza semplicemente guardando nella direzione giusta, mi sono sentito un privilegiato come credo si sentano tutti coloro che possiedono un’abilità artistica o anche coloro che “credono” di possederla. Tuttavia, ho ritenuto questo privilegio un intendimento da custodire, un impegno da esercitare. Non ho mai cercato di compiacere il mio personale pubblico con immagini spettacolari; ho inseguito, invece e ossessivamente, la verità che si cela nella penombra che tutti attraversiamo. La fotografia è stata per me lo scambio tra due sguardi; è ancora il desiderio di accostarsi senza ingerenza con una presenza impalpabile, leggerissima, e anche la necessità di avere cura della fragilità, per come mi ha insegnato Maricetta.

Lì – nella casa al mare – rintraccio la radice emotiva di una mia convinzione: per essere dei bravi fotografi bisogna saper ascoltare e sapere ascoltarsi. Si ascolta con gli occhi. Fedeli alla propria visione. Autentica.

Negli anni si è allungato il numero delle foto che non ho scattato, lasciando che rimanessero delle semplici immagini mentali. Sono le foto dell’assenza, quelle che mostrano il mio limite di fotografo perché custodiscono la piccola felicità che mi è appartenuta e che non ho saputo rappresentare. Ma tante altre sono immagini trash o splatter con il loro sovraccarico cognitivo che annulla la capacità empatica di chi osserva. Cattive maestre. Insegnano a non sentire e non si possono ascoltare.

La loro fruizione sempre più frettolosa trascina con sé ogni pretesa di consapevolezza, travolge ogni barriera etica. Non mi sono girato da un’altra parte ma non ho fotografato in quelle situazioni in cui ho ritenuto che il soggetto meritasse quel rispetto dello sguardo che non avrei più saputo esercitare. O, semplicemente, quando si sarebbe potuto ravvisare nelle mie foto un intento pedagogico. Me ne infischio della lusinga dei like, del mercato e del favore di un pubblico omologato.

Il comune sentire di una società che produce diseguaglianze, infelicità e solitudine si costruisce anche a partire dalle immagini che consumiamo.

Non fraintendetemi. Non si tratta qui di voler fare l’anima bella di fronte alle storture del mondo e non saprei dire, con certezza, se questo sia l’atteggiamento giusto. Dal canto mio, l’ho adottato per coerenza con la mia visione della vita, per non essere quello che vorrei far credere di essere. Non è vero che tutto è ciò che sembra. Ho provato a uscire dall’orizzonte delle aspettative altrui e a sottrarmi dal grande frullatore del “così fan tutti”. Mi pare che il mondo vada in un’altra direzione. Si potrebbe cambiare rotta? Non mi pare aria.

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