Fondato a Racalmuto nel 1980

“Usi e costumi della donna siciliana”

Riflessioni a margine di una pubblicazione, dello scorso secolo, del Prof. Antonio Cremona, Ordinario di Storia e Geografia nel Regio Istituto Tecnico di Agrigento  

Antonio Cremona

“…io mi occuperò… degli usi e dei costumi della donna siciliana …e precisamente alla popolana dell’antico stampo, priva d’ogni istruzione, semplice e buona… ma il tutto per sommi capi…chi però volesse procacciarsi più ampie cognizioni su tale argomento, non avrà a far altro a dare un’occhiata alle pregevoli opere delle tradizioni siciliane del Pitrè, del Salomone Marino, del Guastella, dell’Avolio, del Tamburello, del Di Giovanni, dell’Arcoleo, del Capuana, del Raccuglia….”

Così inizia una pubblicazione del prof Antonio Cremona, ordinario di Storia e Geografia nel Regio Istituto Tecnico di Agrigento. Nato a Caltagirone il 14 agosto del 1863, preferì dedicarsi agli studi e alle ricerche storiche invece che continuare l’attività imprenditoriale del padre.

La lettura di queste pagine ci dà conferma della concezione patriarcale dominante in quel periodo soprattutto negli strati sociali privi di istruzione.

La nascita di una figlia femmina generalmente veniva considerata una disgrazia a cui la stessa natura si intristiva e con questo detto si commentava  “Storci un lignu du tetto”.

Più benevola la saggezza popolare se la nascita di una femmina restava unica in seno alla famiglia ma guai se ne venivano al mondo altre nello stesso nucleo familiare :“ Si a la to casa na fimmina nasci/ N’è nenti si cu una la finisci/Ma si di longu autri ni nfasci/Sii di certu che t’impoverisci”

Lo studioso rileva come nel mondo contadino, che aveva bisogno soprattutto di braccia forti per la terra, una bambina era considerata solo un “pezzu di carni” e si aveva più cura della gallina, del maiale o dell’asino che della figlia femmina. Questo” pezzu di carni” spesso veniva lasciata sola chiusa in casa se ad esempio la madre doveva recarsi a lavare i panni. Se invece doveva recarsi in campagna la lasciava seduta in mezzo alla polvere sotto il sole cocente o intirizzita dal freddo a seconda delle stagioni.

Questo spiega la diffusa e superiore mortalità delle bambine a quei tempi e in quei contesti.

C’è un passo di questo interessante studio che riportiamo integralmente:” …E mentre il nostro contadino, essenzialmente egoista e utilitario, piange e s’attrista disperatamente per l’asino che s’ammala o muore, non si commuove granchè per la morte della figlia, e al tristo annunzio che ne riceve in campagna, spesso non ismette dal lavorare, tutto al più, facendo qualche smorfia o stringendosi nelle spalle esclama:” megghiu accusssì, idda si n’a iutu du beddu Paradisu”. Anche i vicini se mai egli mostri un po’ di cordoglio, gli rammentano il noto proverbio : Centu voti a mugghieri e a fgghia e non u sceccu pricchì cu perdi u sceccu, perdi a vita so”.

Le madri di quei tempi si preoccupavano di poter maritare presto queste figlie, era l’unica soluzione per permettere loro di essere utili alla società contadina procreando, si sperava, tanti figli maschi, braccia utili nei campi.

Ma la ragazza non poteva scegliere: doveva aspettare la “vintura”, cioè una richiesta di matrimonio. Nell’attesa affidava le sue preghiere ai santi.

Cremona recupera alcune di queste invocazioni: “ S. Antuninu-mittitulu  ncamminu/ S. Giuvanni-scriviti li banni/ S. Nofriu gluriusu/ beddu picciotto graziuso/ S. Gaitano a manu a manu/ Madunnuzza di Canicattì- lu parintatu pozza dire di si/S.S. Sacramentu- un ci mittiti mpidimentu.

Ma queste preghiere non sempre sortivano l’effetto sperato di sposare un bel giovanotto e alla sventurata che si vedeva data in sposa ad un uomo laido e rozzo, il parentado e le vicine di casa dicevano  “l’affetto veni cu lu lettu”.

Dopo la “cunuscenza dei due predestinati a convolare a nozze, una donna faceva la stima del corredo della sposa, la cosiddetta” prizzatura”. La nota del corredo si chiamava” pidazzu” o “capituli” e veniva custodita gelosamente anche dopo il matrimonio. Non era raro infatti che dopo la celebrazione delle nozze avvenissero baruffe e quel documento ritornava utile ed evitava magari qualche coltellata di troppo tra i consuoceri.

Il giorno delle nozze il corteo partiva dalla casa della giovane sposa circondata da donne di famiglia e amiche e alla fine della cerimonia si gettavano sugli sposi chicchi di frumento, augurio di prosperità. Agli invitatati veniva offerta calia (ceci abbrustoliti), fave e vino; in alcuni casi anche dolcetti e rosolio. Generalmente le donne erano separate dagli uomini per ritrovarsi poi insieme per ballare una sorta di tarantella “ ballettu o chiovu”. La sposa concedeva il primo ballo al marito ma poi era costretta a ballare con tutti gli invitati. Dopo la festa gli sposi venivano accompagnati alla loro dimora e l’indomani mattina il corteo degli invitati ritornava per dare la” bon livata”.

Lo studioso ci racconta che in alcune parti della Sicilia appena lo sposo si trovava sull’uscio della nuova casa dava un sonoro schiaffo alla moglie, in segno della sua superiorità.

Scrive Cremona “…L’autorità del marito, presso i contadini, è grande, pesante e, diciamolo pure, nel più dei casi crudele sopra la moglie.. Questa dà del Voi al marito che chiama per modestia” u me cristianu” o u” me patruni i casa”; mentre ella è chiamata a me cumpagna, ma in realtà è spesso la serva, la schiava dell’autocrate marito, il quale si arrogherebbe quasi il diritto di vita e di morte sopra la moglie, come al tempo dei Romani, se non intervenisse la legge a temperarne il dispotico volere…lei non s’immischia negli affari del marito e non fa cosa importante senza l’ordine di lui…sta con una certa soggezione, la quale si mostra anche nella qualità inferiore di cibi…guai poi a contraddirlo…o a commettere qualche sbaglio…si avventa con tutta la sua rabbia contro la povera so cumpagna…anche con percosse…”

Se lei osava lamentarsi le comari così la confortavano: “ Chi vuliti? U maritu è patruni, u tortu è sempre di nuatri fimmini, macari che iddu voli fari trasiri u sceccu pa cuda”

Un lavoro molto interessante per ricordarci uno spaccato di un tempo che fu ma che ancora purtroppo si riverbera in certi comportamenti maschili che denotano il non totale sradicamento di questa cultura patriarcale dove la donna rappresentava un oggetto di possesso maschile.

Lungimirante la considerazione dello studioso che così scrive: “…il femminismo in Sicilia è molto in ribasso, presso le persone di basso ceto e i contadini non si conosce affatto. La donna siciliana non meriterebbe questo duro trattamento; poiché è lei che pensa all’economia domestica, all’educazione dei figli…a tutto il buon andamento della casa, è lei che sgobba lavorando anche le intere notti, dopo essersi affaticata tutta la santa giornata…”

Una concezione sicuramente all’avanguardia per quei tempi che lo studioso non ha alcuna remora ad esternare e a stigmatizzare. A conferma che la misoginia, pur essendo figlia di alcuni contesti storici e geografici trova sempre grandi ostacoli nelle menti illuminate. Ieri come oggi.

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