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La nostra terra è figlia di grandi Padri, ma noi siciliani non sempre siamo figli grati

Tra Giano e Ulisse: la Sicilia, terra polimorfa

Bia Cusumano

La nostra terra è figlia di grandi Padri, eppure spesso con rammarico noi siciliani non sempre siamo figli grati. Indolenza abulica tipica del nostro popolo che purtroppo sconfina spesso nella ingratitudine. E davanti l’ingratitudine gli intellettuali non possono tacere. Giorni fa mi sono imbattuta in un articolo che riguarda un esempio di mancata riconoscenza nei confronti di un grande scrittore siciliano. Un fatto alquanto triste riguarda il nostro Camilleri, letto e tradotto in tutto il mondo.

Andrea Camilleri aveva autorizzato il comune di Porto Empedocle, in provincia di Agrigento, ad utilizzare il nome di Vigata accanto a quello originale. Il documento in cui il grande scrittore aveva compiuto questo gesto simbolico, ma di grande generosità nei confronti della sua terra, è stato trovato di recente in una discarica ad Aragona nell’area di stoccaggio. Ragion per cui, l’attuale Sindaco di Porto Empedocle, Calogero Martello, ha aperto una indagine interna al Comune per far chiarezza sulla vicenda.

Fin qui, cronaca amara che lascia alquanto perplessi su come sia possibile trasformare un gesto di bellezza generosa in un vero e proprio sfregio che lascia senza parole.

Ovvero le parole mi giungono spontanee da una riflessione profonda. Ma noi Siciliani non siamo figli dei Greci? In Sicilia non restano impresse le loro orme e tracce di maestosa e insuperabile meraviglia? La loro eredità culturale in tutte le più variegate espressioni? Dalla poesia, al teatro, dalla architettura, all’arte del pensiero profondo e speculativo? Non alberga qui, tra le nostre vie, i nostri paesini, tra scirocco e fichi d’india, tra sole e macchia mediterranea, tra ulivi e colonne dei loro templi, il loro respiro?…

E presso i Greci l’ospitalità non era sacra? Aveva un nome ben preciso, ovvero Xenia. Era una azione sacra e consisteva nel rispetto reciproco tra chi ospitava e l’ospite che veniva accolto e trattato con ogni riguardo e cura. Al momento del congedo, l’ospite riceveva perfino un dono da portare con sé che siglava un sigillo di appartenenza tra l’ospitante e colui che veniva ospitato. Ancora di più, i Greci credevano che nell’ospite, chiunque esso fosse, un uomo ricco o povero, potesse celarsi un Dio travestito da uomo che avrebbe “testato” l’ospitalità del padrone di casa. Nel caso in cui l’ospite fosse stato trattato male, gli dei dell’Olimpo si sarebbero accaniti contro quella famiglia. La Xenia dunque era un vero e proprio rituale religioso, per cui ogni buon greco non poteva dissacrarlo. L’ospitalità era un segno di civiltà, era indice di un codice morale che non poteva essere tradito. La cultura greca ci consegna l’ospite per eccellenza, colui che peregrino per dieci anni varca spesso come supplice e mendicante le soglie di diversi popoli: Ulisse, l’eroe astuto e perseguitato, l’eroe di Itaca a cui tende sempre senza resa ma che deve sopportare grandi sofferenze e prove. Eroe che subisce vendette da parte di un fato avverso e spesso ingiusto. Ulisse si ritrova spesso ad essere “ospite” e ad esempio presso i Feaci, viene accolto con ogni riguardo e cura. Sì, siamo figli dei Greci e ben sappiamo quanto sia grande il senso di accoglienza e ospitalità di cui noi Siciliani siamo capaci. Nella nostra terra non si risparmiano dialoghi intensi, abbracci, inviti generosi, affettuose offerte di cibo, vino, dolci verso chi giunge da fuori. Nelle nostre vene, dunque, ancora scorre sangue greco. Verso lo straniero, scatta in automatico, quel senso di accoglienza protettiva, di aiuto solidale, di disponibilità.

I Siciliani sono allo stesso tempo, profondamente ospitali e accoglienti e ferocemente ingrati. Come le porte del tempio di Giano. Giano è una delle divinità più antiche e importanti della religione latina. Il Dio è raffigurato proprio con due volti, può guardare al futuro e al passato. Il Giano bifronte è il Dio del passaggio e della transizione che può condurre dalla pace alla guerra. “Ianua” infatti in latino significa porta. Un Dio dunque legato ad una doppia e ossimorica valenza. Ricordiamo che le porte del tempio di Giano, venivano aperte o chiuse a seconda che vi fosse guerra o pace. Le porte si spalancavano in tempo di guerra e nel tempio del Dio si compivano spesso sacrifici affinchè si potessero avere vaticini sulla riuscita delle imprese militari e potesse tornare la pace.

I Siciliani dunque hanno questi due volti assolutamente inscindibili. Spesso ingrati e quasi blasfemi nei confronti dei loro stessi figli, per invidia, gelosia, competitività, serrano le porte all’accoglienza, all’ospitalità, alla cura dell’altro portatore di bellezza e poi sono altresì profondamente ospitali nei confronti degli stranieri. Non occorre certo citare la vicenda di Luigi Pirandello le cui ceneri rientrarono in terra sicula dopo ben venti anni e con il vescovo che non volle dare alcuna benedizione. Pirandello, dunque, il nostro Premio Nobel per la Letteratura nel 1934, piuttosto che essere accolto in maniera trionfale nella sua Sicilia, venne sospeso in un limbo temporale di più di due decenni per tornare a casa. Insomma anche lui come Ulisse approdò nella sua Itaca dopo un ventennio di traversie.

Non è possibile non restare tristemente amareggiata e non pensare a quella tanto diffusa espressione: “Nemo profeta in patria est”. Frase presente nei Vangeli riferita a Gesù che così stigmatizzò la fredda accoglienza dei suoi conterranei a Nazareth. Quindi, difficilmente nella propria terra a cui si dona l’anima, i propri talenti e risorse, si possono vedere riconosciuti i propri meriti, il proprio lavoro, la propria bellezza? E la soluzione davanti a tanto livore, ingratitudine, invidia sarebbe arrendersi e cercare successo lontano dal proprio paese? Resta questione aperta e problematica. Certo è che molti dei nostri figli siculi, giunti al muro della resa, colpiti e perseguitati da invidie e cattiverie, maldicenze e gogne mediatiche, fanno fagotto ed espatriano, lasciando un vuoto incolmabile di talento, passione, tenacia e sacra bellezza, nella nostra Sicilia. Giungono altrove in qualsiasi parte o d’ Italia o del mondo e per tutti loro fioccano riconoscimenti importanti, gratificazioni, premi significativi, gratitudine. Non mi rassegno al doppio volto dei Siciliani, alla loro propensione naturale all’ospitalità da degni figli dei Greci e alla loro innaturale ingratitudine per i loro figli illustri che cercano di creare bellezza, di cambiare il sistema, di generare cambiamento.

Non massacriamo la Bellezza. E’ madre generosa. Accogliamo piuttosto che sopraffare il talento altrui. Se gli altri brillano, la loro luce non toglie nulla alla nostra, anzi il nostro cielo di Sicilia può solo splendere di più. E le Amministrazioni Comunali di tutti i paesi della nostra terra imparino che la cultura non è un orpello, una “cosa” in più da aggiungere o di cui si può fare a meno. Non è il superfluo ma l’essenziale per potere arginare ogni forma di dispersione umana, scolastica, professionale. I nostri burocrati comprendano che essere amministratori non significa solamente far quadrare il bilancio, perché c’è un bilancio dell’anima che non quadra con i soldi ma solo creando Bellezza, l’unica in grado di cambiare i destini. L’unica arma pacifica in grado di sovvertire le sorti di ognuno di noi.

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