Fondato a Racalmuto nel 1980

Si può accettare di morire, ma non di svanire

Eppure accogliamo con una certa indifferenza questo continuo morire – che è una realtà ricompresa nella vita – proprio perché il nostro presente si sostanzia di identità, memoria e morte. Esattamente come la fotografia

Franco Carlisi

Se potessi scattare una foto il cui tempo di esposizione sia la vita intera – con inquadratura fissa alla maniera di Rossellini – che registri su un fondo di gioie, fatiche e pene, legittime e inspiegabili il mio dibattimento degli ultimi cinquant’anni, che immagine otterrei? Con ogni probabilità un rettangolo completamente bianco. Una vita intera annientata da un abbaglio di luce. Bianco.

Le ore belle, felici, quando ti senti in pace col mondo. I giorni persi dietro ai vetri ad aspettare che qualcuno venga a cercarti. I visi e gli sguardi di chi hai amato, le parole e i silenzi, i gesti senza passione, gli amori senza qualità. Bianco. «Niente è più terribile di questo colore/
Una volta separato dal bene/ Una volta accompagnato al terrore»1.

È forse questa la morte? E precipitandovi dentro, nell’attimo stesso in cui capisci che è per sempre e magari potresti rinascere nuovamente alla luce ma senza alcuna traccia di quello che eri o per sempre non essere più, che cosa ti rimane se non aggrapparti al filo della memoria, labile all’estremità della vita?

La memoria camuffata da vita attenua la paura del nulla che la morte si porta con sé. Si può accettare di morire, ma non di svanire. Il nulla di sé non è sopportabile. Ma la morte non è soltanto fisica. Lo si può affermare senza addentrarsi in discorsi che riguardino la psiche, intesa come si voglia, anima o mente che sia. Intendo che la morte è sempre presente nella nostra vita perché ogni volta che il giorno è andato quel me è morto per far posto a quest’altro me che sono io mentre scrivo o che sei tu mentre leggi. Parafrasando Seneca: la morte non è un futuro ma un presente che divora ogni giorno una porzione sempre più ampia di noi. Eppure accogliamo con una certa indifferenza questo continuo morire – che è una realtà ricompresa nella vita – proprio perché il nostro presente si sostanzia di identità, memoria e morte. Esattamente come la fotografia.

Lo sapeva Barthes quando mostrava il condannato a morte – Lewis Payne – in una celebre foto di Gardner, indicandolo come colui che è morto ma sta per morire. Tutti noi siamo condannati a morte. Tutti noi stiamo per morire. Il quando è incerto. Il quando è la speranza. Quella che ci spinge a vivere facendoci credere che l’argomento riguardi gli altri. Eppure basterebbe prendere la foto di coloro che hanno assistito alla condanna di Lewis Payne, avvenuta nel 1865, per dire con certezza che tutti – compresi i loro figlioletti nelle case, compresi tutti gli abitanti di quella città, dell’intero pianeta in quel momento –, tutti sono morti. Un’ecatombe. Ciò nonostante vediamo ancora lo sguardo assente di Lewis Payne e il sorriso abietto nel volto di Baudelaire e forse abbiamo anche visualizzato la grazia negli occhi della madre di Barthes pur non avendo mai visto la Fotografia del giardino d’inverno. Il senso di qualcosa che si eterna appartiene solo all’arte.

Il lettore non me ne voglia se scrivo mestamente in questa giornata d’autunno travestita d’estate, col pensiero rivolto ai quattro amici persi prematuramente nell’ultimo anno e una stretta al cuore simile a un rimpianto. Due letterati, un disegnatore e un pittore, luminosi invulnerabili. Mi piacerebbe che ciascuno di loro tornasse a parlarmi un poco, e per un poco condividesse con me pensieri e passione. Ma non ci sono più strade da percorrere insieme né sogni da infrangere, nessun male più povero dell’assenza che li affligga e di cui possa averne cura. Ho imparato la morte degli altri come fosse la mia.

Quando perdiamo qualcuno cerchiamo di riafferrare la sua umanità non soltanto attraverso la memoria ma sfidando un’impossibilità: l’incontro. Ne abbiamo bisogno perché la nostra fedeltà a questa terra necessità di qualcosa di tangibile. Questo è il motivo per cui incorniciamo fotografie con l’immagine di chi ci ha lasciato. Per incontrarlo, sia pure in un mondo sospeso tra illusione e innocenza. Per incontrare gli artisti non occorre invece conservare un loro ritratto, bastano le loro opere. Questa è l’eternità a cui mira l’artista. Perpetuare se stesso nelle sue opere. Una personale eternità che non sarà quella dell’aldilà ma andrà senza dubbio al di là della sua vita. Sono le opere d’arte che consegnano l’autore al futuro permettendogli di abitarlo in un altro modo.

Epperò devo dire che personalmente questa eternità a portata di mano che mi sembrava consumasse tutte le mie aspirazioni agli inizi della mia carriera di fotografo, dopo i primi riconoscimenti, le prime gratificazioni, col passare degli anni mi consola ben poco. Da quando la mia vita ha compiuto cinquanta anni ho compreso il rischio di perderla e ho imparato ad apprezzarne ogni singolo aspetto, anche la noia, la banalità o l’inutilità del dolore. È come con le donne: prima me ne piaceva qualcuna, adesso quasi tutte. «È la paura della morte e l’attrazione per la vita», dice il mio amico psichiatra. Non si tratta di evasione ideologica né di lucido e amaro disincanto ma di passione terrena. Cresce nel tempo una distanza intellettuale e sentimentale dalle tue aspirazioni e capisci che quel che più conta è stare nel battito dell’esistenza. Vivere ogni istante, inseguendo l’essenziale. Stare dunque e non restare. Come si sta su questa terra, umanamente.

Ritornando quindi alla metafora da fotografo con la quale ho aperto questo testo, si potrebbe dire che fa acqua da tutte le parti. Per registrare la vita utilizziamo quasi sempre altri strumenti. E spesso sono inadeguati e ognuno di loro richiede un cambio di prospettiva.

Non so per gli altri ma per me più si va avanti più la vita moltiplica i suoi significati – ch’è anche un modo per confonderli – quando io invece vorrei capirla, spiegarmela. Mi oriento in questo zibaldone attraverso la fotografia definendo continuamente nuove coordinate di senso: le vite degli altri, le loro ragioni, raccontarle e quindi viverle senza rinunciare alla mia. Ma in questo affanno di scandagliare, di capire, di scrutare rimango sempre più colpito dalla inverosimiglianza della vita.

Mi pare di poterla astrarre dalla sua dimensione spazio-temporale e che il mio tentativo di rendere verosimile la realtà fotografandola sia inutile. Così coltivo l’illusione di poter addomesticare i giorni che passano e scrivo, cerco una necessità per ogni cosa mentre il tempo continua a scorrere micidiale, indifferente alle insurrezioni della memoria, alle sue anguste felicità, al segreto eroismo dell’illusione. Ma s’è fatto troppo tardi perché tutto ciò mi riguardi ancora. La morte è altrove, disumanamente.

______________

Note

1Vinicio Capossela, «La bianchezza della balena», in Marinai, profeti e balene, 2011. Il testo della canzone è liberamente tratto da Moby Dick di Herman Melville (1851), tradotto da Cesare Pavese, Adelphi 1987.

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Laurea magistrale in "Letterature moderne comparate e postcoloniali" all'Università di Bologna