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Non è tempo di «affari propri»

Le considerazioni di Felice Cavallaro sugli assordanti silenzi a margine della cattura di Matteo Messina Denaro

Foto di Angelo Pitrone

Sembra cominciare bene il nuovo anno per l’antimafia. La cattura di Matteo Messina Denaro però ha confermato come fosse estesa la rete di copertura del boss. Compresa l’area di una certa “borghesia mafiosa”, stando a come l’hanno descritta in Procura, a Palermo. Ed è questo che dovrebbe allarmarci, dopo trent’anni di caccia all’uomo. Perché a fingere di non vedere, a scegliere la strada dell’assuefazione e della rassegnazione, per paura o per interessi personali, sono stati medici, burocrati, professionisti, alcuni anche massoni, esponenti del sottobosco politico di una provincia come quella trapanese. La stessa dove è da poco scattata la condanna definitiva per approssimazione alla mafia di un notabile come Salvatore D’Alì, un tempo vicino al padre di Messina Denaro e a lungo sottosegretario all’Interno.

Quindi, al vertice di quella polizia che al boss dava la caccia. Paradossi e contraddizioni di un’epoca forse oggi segnata dal declino della sanguinaria mafia targata “corleonesi”. Speriamo che si tratti della crisi reale di una organizzazione la cui ala militare, dicono, risulterebbe destrutturata. Speriamo che il cybercrime o la cosiddetta mafia degli affari non subentrino soffocando sempre di più una terra assoggettata come la Sicilia, soprattutto in centri periferici simili a Campobello di Mazara dove teoricamente tutti dovrebbero sapere tutto di tutti.

Al di là di compromissioni politiche e fenomeni di corruzione crescente (da Palermo a Bruxelles), restando concentrati su questo tipico micromondo, bisogna anche interrogarsi su come stiano crescendo o arretrando tanti nostri paesi di provincia lasciati dai giovani che emigrano per studiare o lavorare. Paesi piccoli e grandi privati di un dibattito reale. Perché molti, vinti da una certa stanchezza che aleggia, sembrano avere rinunciato al confronto, alla polemica. Spesso rifugiati nei post di social che non possono sostituire le aule di un consiglio comunale. E nemmeno la piazza dove un tempo si assaporava anche il contrasto dialettico dei comizi, come fosse una vera agorà, fulcro della vita politica. Oggi, invece, il vuoto.

E lo cogli, questo vuoto, anche nella Racalmuto dove torna ad accendersi il sito di Malgrado tutto, dopo mesi di un silenzio informatico determinato da problemi tecnici, ma parallelo ad un assordante silenzio sulla vita pubblica. Avviamo con soddisfazione questa nuova fase sperando che possa coincidere con una ripresa del confronto perché il silenzio spinge tanti a rintanarsi nel privato, senza occuparsi di quanto accade spesso sotto i propri occhi, divenuti ciechi, nel segno di una assuefazione che diventa rassegnazione.

Non possiamo vivere o sopravvivere in una comunità dove ognuno si fa gli affari propri. Perché questo spesso vorrebbe chi male amministra la cosa pubblica. O lo gradisce quella parte malata di un’ammaccata borghesia interessata ad evitare confronto e controlli. Appunto, compresa la borghesia mafiosa, lieta di una silente zona grigia. E’ il rischio da tener presente, fuori da ogni generalizzazione. Ben sapendo che non tutti brigano con la mafia. Ma è anche vero che il resto della borghesia, della comunità, appare sovente assente, inesistente.

Medici, professionisti, agiati pensionati, troppo spesso tutti muti. In questa cadaverica quiete può accadere di tutto. Si può morire di inedia o si può accettare di non cogliere i segnali devastanti della complicità, dell’acquiescenza, come è successo in quel micromondo dove si celava il boss. Ci serva da monito spaccando la gabbia del grigiore, facendo sentire la propria voce.

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