Fondato a Racalmuto nel 1980

Il tenore Infantino a Sciascia: “Fammi stu favurazzu”

LA LETTERA INEDITA Nel centenario della nascita di Luigi Infantino una mostra permanente a Racalmuto. E tra le carte della Fondazione Sciascia viene fuori una lettera inviata nel 1965 all’amico scrittore che aveva conosciuto negli anni della scuola. Infantino sollecita Sciascia il testo che introdurrà la raccolta di canti siciliani: “Ti prego di inviarmi presto quanto mi hai promesso, altrimenti il disco non potrà uscire“.

Nel nostro fotomontaggio, la lettera di Infantino a Sciascia del 1965 e i due in una foto conservata nell’archivio di “Malgrado tutto”

Nelle venti righe scritte a mano il 6 aprile del 1965 c’è tutto il carattere di Luigi Infantino: estroverso, confidenziale, disinvolto. L’opposto di com’era il destinatario della lettera, Leonardo Sciascia.
Una missiva che salta fuori nell’anno in cui si celebra il centenario della nascita dei protagonisti di questa storia.

Gino Infantino e Nanà Sciascia si conoscono sin da bambini. Frequentano la quinta elementare nel 1930 e in quella stessa classe c’era anche Totò Puma. Gino, Totò e Nanà sono destinati a diventare tre racalmutesi che lasceranno un segno non solo alla storia del loro paese. Due grandi tenori e un grande scrittore: Luigi Infantino, Salvatore Puma e Leonardo Sciascia.

In quella lettera di cinquantasei anni fa, Infantino scrive da Roma all’amico e concittadino Sciascia che pensava già di trasferirsi da Caltanissetta a Palermo, che aveva da tre anni pubblicato il romanzo che lo ha reso assai noto, Il giorno della civetta:

«Carissimo Nanà, speravo di ricevere presto il tuo promesso “scritto” per la presentazione del mio “Recital” di canzoni siciliane che già hai ascoltato. Ti prego di inviarmi al più presto quanto mi hai promesso, altrimenti il disco non potrà uscire“.

Sciascia e Infantino negli anni ’60 (Foto Archivio Malgrado tutto)

Lo chiama Nanà, come sempre. E firma la lettera con il suo nomignolo racalmutese, Gino, che nel ’65 ha già vent’anni di successi in tutto il mondo. Aveva debuttato nel 1943 al teatro “Regio” di Parma nella “Bohéme” di Puccini, accanto a Renata Tebaldi. Sarà poi al “San Carlo” di Napoli e da lì un successo dopo l’altro che lo porterà al “Coven Garden” di Londra interpretando il Duca di Mantova nel “Rigoletto”. Nel 1946 la definitiva consacrazione: alla fine di quell’anno debutterà, in occasione della riapertura ufficiale dopo la guerra, alla Scala di Milano.
New York, Helsinki e altre città del mondo lo vedranno protagonista assoluto. Tra il 1953 e ’54 incontra, nel Regno Unito, i mitici Stanlio e Ollio. Cantò per loro, diventarono amici. E sempre nel ’54, a soli 33 anni, è alla “Fenice” di Venezia in quella che sarà una delle interpretazioni più riuscite e rimaste nel mito, quando indossò i Panni di Edgardo nella “Lucia di Lammermoor” nella memorabile edizione con Maria Callas. La “divina” lo vuole accanto per ricevere gli applausi del pubblico.

In quegli anni Leonardo Sciascia, invece, aveva pubblicato solo poche cose, Favole della dittatura, Il fiore della poesia romanesca, La Sicilia, il suo cuore, Pirandello e il pirandellismo. Il maestro elementare, che viveva ancora nella casa di via Regina Margherita a Racalmuto, dirigeva in quel periodo una importante rivista, “Galleria”, che lo ha messo nelle condizioni di conoscere il mondo artistico e letterario italiano. Aveva già contatti con Pasolini, Roversi, La Cava e tanti altri intellettuali. E pensava già di scrivere qualcosa sulla sua esperienza di insegnante, poi diventate le Cronache scolastiche di quel libro arrivato solo nel 1956 che lo faranno conoscere al grande pubblico, grazie all’editore Laterza, Le parrocchie di Regalpetra.

Quando Infantino scrive quella lettera, Sciascia era già uno scrittore di successo. Ci tiene ad avere una sua presentazione. Aspetta con ansia un testo per concludere il suo lavoro, Sicilia amara e duci. Una commovente raccolta di canti della tradizione siciliana, gli stessi che Infantino cantava da ragazzo a Racalmuto, come le serenate notturne o gli Inni alla Madonna del Monte, Lu cantu di lu picuraru, la Ninna nanna
Sciascia ascolta i canti che Gino Infantino ha trascritto e rielaborato.

«Nanà – prosegue Infantino, scrivendo in siciliano – Fammi stu favurazzu di mannarimi subitu sta cosa. Guttuso mi ha promesso che farà la copertina del disco. Come vedi tutto diventerà concentrato di Sicilia…. Ti abbraccio».

Per le edizioni Curci di Milano esce Sicilia amara e duci, con la bella copertina di fichi d’India realizzata da Renato Guttuso. La voce di Infantino è un portento: “Sicilia amara, lu sangu ca mi dasti è tuttu russu. Luntanu picciriddu mi nni ivu, suliddu e scunsulatu pi lu munnu”. E il testo di Sciascia, che introduce i canti, è un capolavoro di affetto e memoria: «Luigi Infantino ed io siamo nati nello stesso paese, nello stesso anno… Abbiamo perciò tanti ricordi in comune, quando ci incontriamo non facciamo che parlare del tempo di allora, delle cose e dei personaggi del paese, del paese come era e di noi com’eravamo… I canti che Infantino ha trascritto e rielaborato sono quasi tutti parte di quegli anni della nostra vita. ed anche quelli che ha inventato sorgono da quella realtà, da quelle esperienze… c’erano più cose allora, e più vere: pur dentro condizioni di vita indubbiamente più penose, più dure. […] E credo che lo stesso sentimento, di nostalgia e (nel senso più proprio) di pietà, che io provo nel risentire questi canti, abbia portato Infantino a ricrearli: senza preoccupazione e rigore filologico, ma nell’impeto del ricordo e del compianto dei vivi e dei morti, dei luoghi, delle feste, delle stagioni, delle ore; in questo – suo come mio – “occidental, climaterico lustro de la vida”».

Ci sono altre testimonianze scritte del rapporto tra Sciascia e Infantino. Tra le carte sciasciane depositate nell’ex centrale elettrica si conservano altre lettere. In una di queste il tenore scrive allo scrittore informandosi delle condizioni del teatro comunale “Regina Margherita”. Racalmuto resterà sempre al centro del loro mondo. Anche durante i loro incontri a Roma, soprattutto nello studio dell’amico comune Bruno Caruso, finiranno sempre per parlare del loro paese e dei loro compaesani.

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