Fondato a Racalmuto nel 1980

Bufalino, l’uomo che aveva fatto morire Giufà

Gaetano Savatteri racconta lo scrittore di Comiso. La saggezza di chi, pur non essendo mai uscito dal suo paese, conosceva tutte le terre e tutti i mari.

Gesualdo Bufalino fotografato da Angelo Pitrone

Aveva fatto morire Giufà. Gesualdo Bufalino aveva preso l’antica maschera siciliana, ereditata dagli arabi, tramandata in molte storie diverse, ma sempre segnate dalla figura senza età di questo sciocco capace di furbizia, di questo saggio dissacrante e irriverente, e ne aveva decretato il decesso. Bufalino aveva fatto morire Giufà – pigro, ladro e cinico – in un giorno preciso: il 6 maggio 1906.

Il lungo “ciclo dello sciocco”, come lo aveva definito Italo Calvino nelle sue “Fiabe italiane”, così trovava epilogo nella sera in cui un Giufà ormai vecchio e stanco, ma sempre intorpidito dalla fame che è costante ossessione della sua vita, con una gallina appena rubata stretta al petto, scappando via dal pollaio, finisce al centro della strada. E lì viene accecato da due fari improvvisi, sbucati da dietro una curva: Giufà instupidito dal terrore, corre incontro alla luce, incontro al gran rumore di ferraglie. “Corre incontro al diavolo a braccia aperte”, finché sente l’impatto e lo schianto. “Era il 6 maggio 1906, giorno della prima Targa Florio, ma Giufà che ne sapeva?”.

A rileggerlo adesso, in quel racconto del 1986 affiora la paura, quasi un presentimento, dello stesso Gesualdo Bufalino, uomo senza patente, leggermente affascinato e molto spaventato dalle velocità delle auto. Dieci anni dopo aver descritto la morte di Giufà, Bufalino moriva in un incidente dell’auto, sulla quale viaggiava da passeggero, in una strada tra le campagne delimitate da muretti a secco della provincia di Ragusa, nel percorso tra Vittoria e la sua Comiso, la città dove era nato e dalla quale non si era mai spostato.

Se la morte di Giufà immaginata da Bufalino voleva segnare la fine dell’epoca delle favole e dei miti, travolte dalla modernità, in quel 14 giugno del 1996, con la morte di Gesualdo Bufalino scompariva una figura di scrittore, studioso e intellettuale espressione di un’Italia e di una Sicilia che non ci sono più. Bufalino era l’uomo che pur avendo letto “tutti i libri”, come diceva di lui Leonardo Sciascia, restava ancorato al percorso quotidiano della piccola provincia meridionale – la biblioteca comunale, la piazza, il circolo, la partita a scala quaranta con gli amici, le sfide a ricordare antiche poesie – dalla quale affacciarsi sul mondo.

E il mondo di Bufalino era quello raccontato dai libri: dizionari, volumi antichi, edizioni rare, autori minori, atlanti geografici, poeti stranieri. Al centro, la Sicilia “isola plurale”, come la definiva lo stesso Bufalino.

Perfino nel nome – Gesualdo – questo scrittore segaligno, con il profilo da uccello, i modi da galantuomo di paese e l’ironia accesa nello sguardo, portava i segni di una Sicilia di un altro tempo, di un’altra epoca. Uscito tardi allo scoperto, solo dietro le pressioni di Leonardo Sciascia ed Elvira Sellerio, aveva pubblicato il suo primo romanzo “Diceria dell’untore” a sessantun anni. Una rivelazione che aveva conquistato il Premio Campiello.

Leonardo Sciascia e Gesualdo Bufalino fotografati da Giuseppe Leone

Sciascia e l’editrice Sellerio, che già gli avevano commissionato un piccolo saggio, avevano scommesso tra di loro che di certo quel professore di Comiso doveva avere “un libro nel cassetto”. Così era, infatti. Un romanzo scritto anni prima, riveduto e corretto e destinato forse a non uscire mai dallo studio affollato di libri dove filtrava, attraverso le imposte socchiuse, il sole duro e forte del sud-est della Sicilia.

Occasioni mancate, ritrosia e pudore, un certo orgoglio che a volte traluceva dietro la cortesia antica, avevano lasciato il manoscritto a ingiallire. Ma la causa era anche una precisa concezione del romanzo, magari portata ad alibi per giustificare rinvii e indolenze. “Io credevo (e in qualche modo ancora credo) – spiegava Bufalino nel 1984 ai giovani redattori del foglio cittadino Malgrado tutto, pubblicato a Racalmuto, il paese di Sciascia – nell’opera perfettibile all’infinito, l’opera cioè che cresce su se stessa e che finisce soltanto con la vita dell’autore. Si capisce che in un’idea simile la pubblicazione diventa un incidente di percorso. Nel momento in cui l’opera viene pubblicata si raggela, diventa un cadavere consegnato ai lettori”.

La pubblicazione come morte del libro. Ma quella frase era detta con una malizia degli occhi che, nella decodifica dell’iperbole siciliana, svelava una vanità dissimulata, tradiva un piccolo scherzo linguistico in cui le cose finivano sempre per essere leggermente diverse da quel che sembravano. Eppure, come Giufà, Bufalino sapeva essere candido. Se Sciascia sosteneva che Giufà era “un lontano, remoto antenato di Candide”, Bufalino poteva sicuramente esserne il pronipote. Perché, pur avendo letto tutti i libri, pur rimanendo lontano dalla figura dello scrittore “impegnato”, Bufalino non era né cinico né rassegnato.

Bufalino a Racalmuto (Foto Archivio MT)

Al giornalista che lo aveva raggiunto dopo l’omicidio di Salvo Lima, aveva detto di non voler commentare l’uccisione a Palermo dell’eurodeputato democristiano da sempre in odor di mafia. Non per viltà, ma per rivendicare il diritto di non commentare la morte di un potente massacrato da Cosa Nostra. Non dimenticava infatti di ripetere: “Tutte le regioni sono infelici, ma la Sicilia è un po’ più infelice delle altre“.

Non aveva mai lasciato Comiso, perfino dopo il successo letterario. Le mattinate a leggere e a studiare, i pomeriggi al circolo, nel cerchio di amici di sempre. Eppure ai ragazzi siciliani che gli chiedevano cosa fare, se lasciare o meno la Sicilia, replicava così: “Io suggerirei la fuga e il ritorno. Bisogna fuggire per imparare che si deve ritornare. In definitiva, la vecchia parabola di Ulisse. Starsene dieci anni ad assediare una Troia imprendibile, prenderla, vagare per dieci anni attraverso tutti i mari, conoscere le sirene, gli amori, gli incantesimi di Circe, conoscere Nausicaa e ritornare poi a Penelope, cioè al ventre della moglie. In questo caso al proprio paese, nella propria terra”. La saggezza di chi, pur non essendo mai uscito da Comiso, conosceva tutte le terre e tutti i mari.

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Oggi, nell’anniversario della morte di Gesualdo Bufalino, abbiamo voluto rendere omaggio alla sua memoria riproponendo questo articolo di Gaetano Savatteri. 

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