Fondato a Racalmuto nel 1980

La grande voglia

Il racconto della domenica

Raimondo Moncada

La giostra parte. E gira, gira, stracolma di bambini che non vorrebbero scendere mai. Sono con i loro genitori, che li tengono per le braccia, per le mani, per non farli cadere e assieme schiacciano i pulsanti sonori. Sono davvero piccoli e non hanno ancora forza ed equilibrio. Ci sono bambini che si agitano sull’astronave che si alza in volo, sulla tazza che gira, sulla moto che corre, sulla carrozza principesca a forma di zucca, sotto gli occhi di mamma e papà impazziti per la loro gioia. Questa stessa scena mi si è ripetuta davanti agli occhi non so quante volte nella mia vita, da bambino, da padre, da nonno.

Un tempo sulla stessa giostra ci saliva anche Giulia, mia figlia. Ora è grande e sta con me sulla pedana a osservare da mamma lo spettacolo già vissuto da protagonista. Ricordo a Giulia quando anche noi eravamo là sopra e lei piangeva al suono della campanella di fine giro ripetendomi tra le lacrime:

“Papà, ancora uno. Ancora uno! Ancora uno!”.

Anche lei, a due anni, a tre anni, e anche dopo, era attratta da quelle mille luci a intermittenza, gialle, rosse, blu, e da suoni da favola. Me la ricordo a Sciacca, dove ho lavorato per tanti anni, nella giostra di Piazza Scandaliato, e me la ricordo ad Agrigento, la mia città natale, al luna park sul lungomare di San Leone, quando finivano i gettoni e dovevamo ritornare a casa.

“Papà, ancora uno! Ancora uno! Ancora uno!”.

Ricordo anche quando abbiamo conosciuto Goran.

Giulia ha diciassette anni, ormai una donna. È sulla pedana della giostra di Sciacca a sorridere e a fare da mamma a Fabio, allora appena due anni, figlio di mio fratello Davide e di mia cognata Debora. Giulia dà il cambio allo zio Davide che vuole chiacchierare con me su tutto. Ci vediamo così poco! Il lavoro e la distanza ci tengono lontani.

Io chiacchiero con Davide facendo due passi mentre Valentina, mia moglie, parla con Debora su una panchina a godersi la vita della piazza, il sole e il quadro luccicante del mare.

È allora che si avvicina un bambino impennando con un passeggino blu e ripetendoci più di una volta:

“Fate fare un giro pure a mio fratello?”

Può avere sette-otto anni. Sul passeggino conduce un bimbo ancora più piccolo di lui. Ciuccia un biberon pieno di latte e balla. Sente la musica della giostra e balla. Hanno entrambi i capelli neri e la carnagione scura. Il più grande ha delle brutte macchie sulle braccia. Sembrano lividi.

I loro occhi sono come incantati. Hanno tutti i colori delle luci della giostra.

“Fate fare un giro pure a mio fratello?”

Il ragazzino con i lividi insiste. Slaccia le cinture del passeggino e prende in braccio il fratellino che balla, che continua a ballare.

“Come ti chiami?” gli chiedo.

“Goran”, mi risponde continuando a osservare la giostra.

“E lui come si chiama?” gli chiedo ancora indicando il piccolo che conduce nel passeggino.

“Emil”.

A domanda risponde. Sembra un interrogatorio. Ma sono curioso e continuo a domandare.

“Da dove venite?”

“Da Agrigento”.

“E perché siete soli? I vostri genitori dove sono?”

“Mia mamma è qui in giro”.

Emil butta il biberon. Con tutte e due le mani indica la giostra cercando di sfuggire all’abbraccio di Goran che mi ripete la richiesta iniziale.

“Fate fare un giro pure a mio fratello?”

“Certo”.

“Grazie”.

“Non devi ringraziarmi”.

“Lei è il primo che mi fa salire sulla giostra”.

Goran si guarda attorno. È come se cercasse qualcuno in Piazza Scandaliato.

“Se sento mia mamma chiamare, posso scendere dalla giostra?” mi chiede Goran quasi preoccupato.

“Non si può” rispondo. “Il giro lo inizi e lo completi. La giostra non può essere fermata. Tua mamma forse non vuole?”

Il piccolo Emil cerca di sfuggire ancora all’abbraccio di Goran come se volesse saltare sopra la giostra. Raggiungo così la cassa. Il giostraio mi riconosce e mi fa festa.

“Da quanto tempo non ci vediamo!”, mi dice.

“Sono passati almeno dieci anni dall’ultima volta” gli faccio notare.

“Sua figlia sarà cresciuta… Mi ricorda il nome?”

“Giulia! Non è più una bambina”.

“E dov’è?”

“È quella lì, con i capelli biondi. Tiene mio nipote”.

“Sembra sua mamma. È un piacere rivederla”.

“Anche per me. Mi favorisce due gettoni?”

“Non due ma quattro. Offre la ditta”.

“Non posso accettare…”

“Mi offendo.”

Accetto i gettoni. Rifiutare sarebbe un’offesa.

“Ha avuto altri bambini dopo Giulia?” mi chiede come se nel frattempo avessi messo su una famiglia numerosa e quattro gettoni non fossero sufficienti.

“No, è rimasta figlia unica. I gettoni non sono per lei. Mi servono per quei due bimbi laggiù, vicino al passeggino. Li vede?”

“Suoi nipoti?”

“Non so chi siano. Posso farli salire?”

“E me lo chiede? I gettoni sono suoi”.

Mi avvicino a Goran e a Emil. La giostra si ferma e li invito a saltarci sopra.

“Potete salire anche voi. Forza!”

Goran si guarda ancora attorno. È come se cercasse qualcuno e ne avesse pure timore. Poi sale sulla giostra. Evita l’aeroplano col cannone e si infila dentro la carrozza principesca a forma di zucca. Emil comincia a battere con le manine i pulsanti sonori. Goran si gira e mi sorride.

Suona la campana elettronica. È il segnale. La giostra riparte per un altro giro. Le luci dipingono i visi dei bambini. Goran balla assieme al fratellino Emil sulla panca della carrozza. Accanto a loro si alza un elicottero. Lo guardano. Un trenino si lancia sui binari.

A ogni giro, Fabio sorride al papà così come gli altri bambini. Goran mi guarda con la stessa espressione di Giulia piccolina. Emil non smette di agitare le mani.

Dopo non so quanti giri, la giostra si ferma. Faccio cenno a Goran che può rimanere. Ho altri due gettoni. Ma Goran riprende in braccio Emil e scende di fretta. Sistema il piccolo sul passeggino e si mette a correre impennando su due ruote. Lo osservo mentre si perde in piazza Scandaliato e poi nei vicoli del centro storico.

Dopo altri quattro giri, scendono pure Fabio e Giulia.

Con Davide, Valentina e Debora facciamo una passeggiata. Giulia e Fabio si rincorrono in una piazza illuminata dalle ultime luci di un sole ormai quasi inabissatosi all’orizzonte. Ci sono altri bimbi che giocano a pallone, che pedalano zigzagando con le bici, che pattinano. C’è un anziano che suona tarantelle con un fischietto di canna sbagliando qualche nota. Ma chi se ne frega! Ci sono famiglie che, come noi, fanno avanti e indietro per ore accumulando non so quanti passi. Dalle panchine si guarda il mare che scintilla, i pescherecci che entrano in porto inseguiti da stormi di gabbiani. I lampioni cominciano ad accendere la magia della sera. Due ragazzi si baciano, abbracciati dietro l’antica balaustra in pietra della scalinata con intarsi in ceramica che scende fino alla marina.

È ora di andare a casa. Fabio alle otto deve cenare. Entriamo in un bar. Offro a tutti un aperitivo. Giulia prende una brioche con gelato. Saluto Debora e Davide. Do un bacio al nipotino. Con Valentina decidiamo di andare al cinema. Nella Discesa Campidoglio, sotto la piazza della basilica dedicata alla miracolosa Maria Santissima del Soccorso, mi sento tirare per la giacca.

“Signore, mi dà un euro per mangiare?”.

È una voce che ho già sentito. Mi giro. È lui, Goran, senza passeggino e senza Emil.

“Non ti ricordi più di me?” gli chiedo.

“Di spalle non l’avevo riconosciuta, signore”.

“Ancora fuori? A quest’ora?”

“Non fa niente”.

“Non hai paura?”

“Ci sono abituato”.

“Dov’è il fratellino?”

“Con mia mamma”.

“E tua mamma?”

“È ancora in giro. Abbiamo appuntamento in questa piazza”.

“Ti faccio compagnia?”

“Non c’è bisogno”.

Mi abbasso alla sua altezza. Mi metto quasi in ginocchio. Goran indica con la mano la mia fronte e ride. Mi paragona all’ex presidente dell’Unione Sovietica.

“Gorbaciov!”

Nella zona stempiata, si vede parte di una grande macchia scura. Me la porto dalla nascita.

“Cos’è?” mi chiede Goran.

“Si chiama voglia”, rispondo. “Durante la gravidanza, mia mamma sognava spesso una fragola in testa che le scivolava fino alla bocca aperta a cucchiaio. E l’ha sognata così tanto che mi è rimasta impressa sulla pelle”.

“Anche Gorbaciov ne aveva una. Chissà cosa avrà sognato sua mamma…”

Goran guarda con avidità Giulia che sta finendo la brioche col gelato.

“Seguimi”, gli dico.

Lo porto al bar.

“Scegli il gelato che vuoi”.

“Voglio il cioccolato e pure la nocciola e pure la zuppa inglese e pure la fragola…”

La ragazza del bancone gli riempie un cono con una porzione formato famiglia. Goran lo afferra e mi guarda. E mi dice ancora grazie con gli stessi occhi di Giulia quando era piccolina.

Dalla vicina piazza Scandaliato vedo uscire in penombra la sagoma di una donna con in braccio un neonato attaccato al seno e con l’altra mano spingere un passeggino dove c’è un bambino col biberon.

“È mia madre” mi dice Goran con il volto di cioccolato, nocciola, zuppa inglese e fragola. Non gli faccio notare che ha le sembianze di un gelato multigusto. Mi fa troppo tenerezza.

“Andate ad Agrigento?” gli chiedo.

“Sì”, mi risponde.

“Guidi tu?”

Goran si mette a ridere.

“Ma che dice? Non so guidare la roulotte. Ci pensa mio padre”.

“E dov’è?”

“Ci aspetta giù, dove ci sono le barche”.

“Fa il pescatore?”

“Guida sempre la roulotte e ci fa fare il giro di tanti paesi. Stiamo tutta la giornata fuori. Poi rientriamo”.

“Deve essere bravo, tuo padre. Siete di Agrigento?”

“No. Veniamo da molto lontano”.

Si avvicina la mamma. Ha un fazzoletto rosso in testa, due pesanti orecchini le allungano i lobi sulle spalle. Alle persone che incontra chiede l’elemosina. Goran va per raggiungerla. Lo blocco.

“Aspetta!”

Prendo il portafoglio ed esco una banconota da dieci euro.

“Tieni, compra da mangiare per te e la tua famiglia”.

“No, grazie”.

“E allora accetta questi”.

Gli prendo la mano e gli lascio i gettoni che gli avevo comprato per un altro giro sulla giostra. Goran li nasconde dentro le scarpe. Poi mi saluta. Va via con la mamma, salendo per Corso Vittorio Emanuele. La donna, poco più che trentenne, gli parla in una lingua che non conosco. Capisco dai gesti che gli chiede i soldi raccolti a Sciacca. Goran si ferma, affonda le mani nelle tasche dei pantaloni ed esce solo qualche spicciolo. La mamma gli dà un pizzico al braccio. Avverto il dolore sul mio corpo. Goran non piange. Si gira verso di me, mi sorride e mi schiaccia l’occhio.

Alla prima curva, lo perdo di vista.

Con Valentina e Giulia entriamo al cinema per vedere un film comico. Ma non c’è più un posto. Troppo tardi. Ci spostiamo così in un’altra sala. È tutta nostra. Proiettano un film sulla guerra nella ex Jugoslavia. Si parla di pulizia etnica. Le immagini mi turbano. Mi scuotono le urla dei bambini vaganti per strade bucate, edifici fumanti, auto crivellate. Mi rimane nell’orecchio lo scoppio delle bombe e il suono dei mitra. Me ne parlava mio padre che la guerra l’ha combattuta contro il nazifascismo sacrificando la propria adolescenza. Al cinema rivivo una storia vissuta in tanti suoi racconti. Figli senza genitori e genitori senza figli. Famiglie costrette a lasciare la propria terra e a cercare riparo altrove.

All’uscita dal cinema penso a Goran.

Ogni sabato lo incontro alla stessa ora davanti alla giostra di Sciacca, sempre col fratellino. Aspetta me. Il giro è assicurato, lo offre sempre il giostraio. Solo uno. Poi Goran corre impennando col suo passeggino, tra i bambini di piazza Scandaliato.

Un sabato Emil si attacca con tutte le sue forze nei maniglioni della carrozza principesca. Non vuole più uscire. Piange. Urla. Goran lo prende a fatica in braccio per andare via. Io insisto.

“Ancora uno”.

“Dobbiamo andare via”.

“Ancora uno”.

Emil smette di piangere e guarda il fratello negli occhi. Goran squaglia come un gelato sotto il sole. Anche io squaglio. Valentina e Giulia si godono la scena.

“Papà avrebbe voluto un altro figlio”.

“Ci abbiamo provato”.

Mentre la giostra gira con Emil che è l’espressione della felicità, sento gridare.

“Goran! Goran!”

È la madre. La donna sale sulla giostra e afferra i suoi figli. Mi passa davanti, mi guarda come per dire “sono miei, non si permetta più”.

Va via. Il vento mi bagna le guance con le lacrime di Emil. Goran mi schiaccia l’occhio e mi sorride.

Il sabato successivo non lo vedo. Non lo vedo neanche gli altri sabati. Mi faccio il giro a piedi delle piazze, dei vicoli. Niente. Vedo solo altri bambini, altre mamme.

Una domenica con Valentina e Giulia decidiamo di fare una passeggiata ad Agrigento, sul lungomare di San Leone. Ci arriviamo alle otto di sera. Posteggio l’auto nell’area di sosta del porticciolo turistico. Mi incammino per i viali verdi del luna park, lungo tappeti in erba sintetica. Passo tra amplificatori che sparano musica a un volume da sordità. Arriva al naso odore di olio fritto. Lungo il marciapiede c’è una fila di camion che vendono panini con panelle, crocchette di patate, meusa, melanzane fritte. C’è chi ordina anche hamburger, wurstel, kebab, gusti di altre terre. Dietro ai camion ci sono  una cinquantina di bancarelle, con ambulanti dalla pelle nera. Scorgo a distanza una giostra che sembra uguale a quella di piazza Scandaliato. Mi prende un colpo quando vedo un bambino con un passeggino. Lo osservo seminascosto da un pilastrino in acciaio dell’autoscontro. Mi dà le spalle. Dico a Valentina e Giulia di proseguire senza di me.

“Vai. Ora ti raggiungo”.

“Ma che c’è?”

“Poi ti spiego”.

Il bambino col passeggino ferma un uomo. Gli chiede qualcosa. Con una mano gli indica la giostra. Il signore, sulla cinquantina e con in mano un ragazzino che gli piange al seguito, prosegue innervosito senza dargli retta raggiungendo la cassa. Chiede dei gettoni. Poi sistema il suo piccolino sull’aereo col cannone. Suona la campanella. La giostra parte. Il bimbo col passeggino sta a guardare come una statua. Immobile. Sta solo qualche istante, poi corre via, impennando col passeggino. Non mi dà neanche il tempo di chiamarlo. Il suo nome mi rimane in gola, inesploso.

Raggiungo Valentina e Giulia. Sono sedute al tavolo della gelateria dove mio nonno fino al 1943 ha gestito un posto di ristoro. Quando è arrivata la guerra, ha venduto tutto per portare in salvo mia nonna e i figli piccoli, compreso mio padre. Vengo sempre qui a prendere un gelato e a dissetarmi. Valentina e Giulia hanno già consumato. Racconto del bimbo col passeggino. Valentina e Giulia mi rimproverano. Mi sarei dovuto avvicinare subito e pagarlo io il biglietto a Goran. Perché era Goran, anche se non l’ho visto in faccia.

Il dispiacere mi è rimasto per anni. Ma da quel giorno, ogni volta che mi si è presentata l’occasione, non ho più perso tempo. Cammino sempre armato, con due gettoni in tasca. Sono per i figli del caso. Non li uso mai per i familiari, neanche per mio nipote, Alfredino, il primogenito di Giulia. Appena nato, già insistevo per portarlo alle giostre.

“Aspetta almeno che cammini!”

Sono sempre stato un uomo impaziente. Con l’età e la pensione, l’impazienza è aumentata. Elemosino il piccolo Alfredo per riempire la vuota giornata. Al primo compleanno l’ho rapito e, senza dire niente alla mamma e alla nonna, l’ho portato al luna park di San Leone. Ed è stato allora che la storia interrotta di Sciacca ha avuto il suo seguito.

A San Leone trovo la stessa giostra, quella di Giulia e di Fabio bambini, ma con una nuova e grande insegna con le lettere scintillanti di “Milka”.  Mi avvicino alla cassa spingendo il passeggino di Alfredo, impennando su due ruote per farlo divertire. Dietro la cassa c’è un ragazzo di poco più di venti anni, con i capelli lunghi e neri, gli occhi scuri e vivaci, dai modi gentili.

“Prego”.

Chiedo due gettoni togliendomi la coppola che indosso da quando i capelli hanno cominciato ad abbandonarmi. Il ragazzo della giostra rimane pietrificato, con i gettoni in mano. Gli luccicano gli occhi. Mi guarda la grande voglia, ora ancora più evidente in una testa pelata.

“Posso farle una domanda?” mi dice.

“Chieda, spero di essere ancora all’altezza”, rispondo.

“Quella macchia è recente?”

“Ce l’ho dalla nascita. Mia mamma…”

“Sua mamma durante la gravidanza aveva una grande voglia di fragole e sognava ogni notte di averne una sopra la testa che scivolava fin nella bocca aperta a cucchiaio”.

“Goran!”

“Sono proprio io”.

Abbandono il passeggino e lo raggiungo dentro la cabina. Ci abbracciamo senza dire una parola. Io piango sulla sua spalla. Lui su quella mia. I vetri degli occhiali diventano come i vetri della mia finestra in inverno, rigati da continue gocce di pioggia e appannati dalla differenza di temperatura tra il freddo di fuori e il calore di dentro. Ci stacchiamo dall’abbraccio solo quando Alfredo si mette a urlare. È legato al passeggino e non riesce a staccare le cinture. Lo raggiungo ripulendomi gli occhiali. Lo libero e me lo metto in braccio.

“Suo figlio?” mi chiede Goran.

“Mio nipote. Figlio di Giulia. La ricordi?”

“Sì”.

Goran mi porge due gettoni.

“Questi sono quelli di Sciacca”.

“Ma che fai? Riprendili”.

“E questi sono due abbonamenti. Li può usare in questo luna park dove e quando vuole. Nella mia giostra è il padrone”.

Sistemo Alfredo dentro il carro a forma di zucca. Lo lego, ma questa volta non piange. Rimango sopra la giostra assieme a Goran. Siamo solo noi tre.

“Non ci vediamo da dieci anni”.

“È vero”.

La giostra gira e non si ferma più. Goran mi racconta di essersi diplomato ragioniere. Ma non è stato semplice. Mi confessa che la signora di Sciacca non è sua mamma, così come non è suo padre l’uomo che lo attendeva in roulotte al porto. Sua mamma si chiamava Milka. È a lei che ha dedicato la giostra.

“Insegnava in un asilo. Ci andava la mattina. La sera aiutava papà Nikola. Avevamo un luna park tutto nostro”.

Non ricorda il nome del paese dove viveva assieme ai genitori perché era troppo piccolo. Fissa lo sguardo nell’insegna luminosa della giostra e ricorda sua mamma, suo papà, i nonni, la sua casa. Ricorda l’asilo della mamma che anche lui avrebbe dovuto frequentare. Ricorda la giostra preferita del suo luna park. Ricorda gli ultimi istanti con i genitori, con gli occhi gonfi di lacrime, e lo fa con un italiano perfetto.

“Un boato fa tremare la città. Mio padre lascia la giostra e corre da mia mamma. Mi ordina di stare con Branko, il suo aiutante. Ma io gli vado dietro lo stesso. L’asilo è stato colpito da una bomba. Dal tetto sfondato esce fumo, tanto fumo. Una colonna nera taglia in due il cielo. Il fuoco divora ogni cosa. Sento l’urlo che entra in quell’edificio senza più porte, senza più finestre, senza più niente. Mamma! Papà! Corro con le mie minuscole gambe. Mio padre esce tra le fiamme con mia mamma in braccio. È tutto pieno di sangue. Grida: ‘Aiutatemi! Vi prego, aiutatemi! Respira ancora. Aiutatemi!’ Una scarica di mitra gli ferma la corsa. Non urla più. Cade in ginocchio, con mia mamma in braccio. Ha il tempo di guardarle il volto e distenderla a terra. Prova a baciarla, ma non ci riesce. Mamma! Papà! Sto quasi per raggiungerli, ancora un centinaio di metri, quando passa una roulotte. Sopra un uomo e una donna in fuga. Mi invitano a salire, a fare presto. Non salgo. Voglio la mia mamma e il mio papà. Riprendo la mia corsa. Il mitra si accanisce ancora contro i miei genitori. Papà riesce a muovere una mano e a coprire il volto di mamma. La roulotte fa marcia indietro a grande velocità. La donna apre la portiera, mi afferra al volo e mi infila sotto il sedile. Dopo non so quanti giorni e quanti chilometri, mi ritrovo in un paese dove parlano una lingua che non avevo mai sentito. Sono in Italia. Da allora quell’uomo e quella donna della roulotte sono i miei genitori. Emil è il loro figlio naturale. Lui è nato ad Agrigento, dove ci siamo stabiliti”.

Arrivato in Sicilia, Goran è incontenibile: scappa sempre. Va alle giostre e davanti alle scuole. Osserva i bambini che studiano e si divertono. Ed è in una scuola elementare che l’avvicina la maestra Giovanna. L’insegnante, senza dire niente al preside, lo prende per mano e l’accompagna nella sua classe.

“Questo è Goran e viene da un paese molto lontano”.

“Quale, signora maestra?”

“È un paese che non esiste più”.

“L’hanno rubato?”

“È un paese che è stato distrutto da uomini molto cattivi”.

Goran viene fatto sedere in un banco dove c’è una sedia vuota. Il primo giorno non dice una parola. Va via quasi subito quando il fratellino si mette a piangere. Comincia poi a starci sempre di più. I compagni fanno una colletta e gli regalano uno zaino. Dentro ci sono libri e quaderni con scritto il suo nome in copertina. Goran non lo capisce. Non sa né leggere né scrivere. Non ha mai imparato. Non ha fatto in tempo. Quando glielo dicono, cerca di imitare le lettere. Viene aiutato dai compagni. Ha un’intera classe di maestri. In poche settimane, la prima conquista: il suo nome, che è anche la sua firma. Lo zaino lo lascia a scuola, sopra la sua sedia. Ha paura dei genitori.

Un giorno la maestra Giovanna telefona a un’amica assistente sociale. Le parla di Goran. Vengono rintracciati il padre e la madre. L’assistente sociale li mette con le spalle al muro.

“Se gli permettete di frequentare la scuola, non dirò nulla dei lividi e di tutto il resto”.

“Se lo vuole lui, per noi va bene”.

Goran la mattina è in classe, il pomeriggio va ai semafori a pulire i vetri alle auto di passaggio nella Valle dei Templi. Ci sta poco. Il proprietario della sua giostra preferita di San Leone lo prende con sé come aiuto.

Ora è lui a gestirla. Al titolare andato in pensione dà una percentuale al mese sugli incassi.

“È un mestiere che ha un passato e avrà un futuro. Nonostante le crisi, nonostante le guerre, i bambini vorranno divertirsi sempre”.

Chiedo di sua mamma, quella adottiva. Non mi ha lasciato un bel ricordo.

“Quando sono libero la vado a trovare. È sempre in giro. La sua vita è questa. Comunque è molto felice per me. Al diploma l’ho vista piangere per la prima volta. Mio padre era ubriaco ed è rimasto sulla roulotte a dormire”.

“Emil?”

“Ho convinto mamma e papà a mandarlo a scuola. Ci bado io. Quando può viene qua ad aiutarmi”.

Non so quanti giri ci siamo fatti su quella giostra. E non so quanti altri me ne sono fatti dopo. Goran ce l’ho come un figlio e anche come mio nuovo datore di lavoro. Ogni sera vengo a San Leone e gli do una mano, da volontario. Ritiro i gettoni dai genitori e spiego ai bimbi come far decollare l’elicottero, come far girare la tazza, come fare impazzire i pulsanti sonori. Ci sono gli stessi giochi della giostra di Sciacca, tranne l’aereo con il cannone. Goran l’ha rimosso e sostituito con un passeggino che si impenna.

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(Racconto scritto nel 2012)

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